Con la Bandini di Firenze i calchi in gesso della Vaticana e della Rondanini. La parabola di Michelangelo in mostra al Museo dell’Opera del Duomo
Chiara Dino
È la prima volta che le si vedono insieme. Le tre Pietà di Michelangelo, raccolte nella piccola tribuna del Museo dell’Opera del Duomo — sì, sembra piccola la sala davanti alla magnificenza di questa triplice esposizione — rappresentano un evento. Perché mostrano la parabola creativa di uno dei più grandi artisti attraverso mezzo secolo: Michelangelo morì molto anziano e se la prima, la dolce Pietà Vaticana , è frutto della mente e della mano di un artista appena ventitreenne, le altre due, la Pietà Bandini che qui al museo del Duomo è di casa, e la Pietà Rondanini, che è a Milano, ci parlano di un uomo alle soglie della morte.
Le differenze sono notevolissime, la potenza del linguaggio dello scultore mai intaccata. Si sono date convegno a Firenze, le tre sculture, — la Bandini è presente nella sua versione originale, le altre due sono calchi in gesso provenienti dai Musei Vaticani — in occasione del forum dei vescovi e dei sindaci del Mediterraneo. E qui resteranno sino all’1 agosto. Da ottobre si sposteranno al Palazzo Reale di Milano, in quella sala delle Cariatidi «che — come ha detto l’ex assessore alla Cultura di Firenze che oggi ha la stessa delega a Milano, Tommaso Sacchi — serba in sé la memoria dei bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, seppure oggi sia restaurata. Un dolore che è universale come il dolore della Pietà».
«Soggetto non presente nelle Sacre Scritture, neanche nei Vangeli Apocrifi — ha ricordato il cardinale di Firenze Giuseppe Betori — l’abbraccio del Cristo morto nel grembo di Maria è un tema molto sentito da Michelangelo e dalla cristianità tutta a partire dal Medioevo quando, dalla cultura germanica giunge fino a noi, ed è un abbraccio che ci riguarda tutti». La curatela è della direttrice dei Musei Vaticani, Barbara Jatta, Sergio Risaliti del Museo Novecento, Claudio Salsi che dirige il Castello Sforzesco di Milano e monsignor Timothy Verdon che è alla guida del Museo dell’Opera del Duomo a Firenze. È al loro lavoro che si deve l’opportunità di vederle così vicine e constatare quello che racconta la storia dell’arte. Dal Vasari in poi. La prima, la Pietà Vaticana , risale al 1500 circa — in realtà l’artista cominciò a lavoraci già prima su commissione del cardinale francese Jean de Bilhères — ed era destinata alla cappella di Santa Petronilla. Si trova in Vaticano dal 1517 anche se prima di raggiungere la posizione attuale ha cambiato varie sedi. La Madonna è bellissima e giovanissima, tanto giovane da aver destato scandalo. Qualcuno ha pensato fosse un omaggio del giovane Buonarroti alla sua mamma morta quando lui aveva appena sei anni. Lui si difese dalle critiche dicendo che il corpo casto della vergine non poteva portare i segni del tempo. Vasari di quest’opera avrebbe scritto: «Certo è un miracolo che un sasso, da principio senza forma nessuna, si sia mai ridotto a quella perfezione che la natura a fatica suol formar nella carne». Le altre due raccontano un capitolo tutto differente della vita di Michelangelo: la Bandini, recentemente restaurata, ebbe una lunga e travagliata gestazione. È il 1547, l’artista ha 72 anni quando comincia a lavorarci su un blocco di marmo avanzato da quelli per la tomba di Giulio II, talmente difettoso da far rischiare la distruzione dell’opera, poi finita da Tiberio Calcagni, da parte del suo stesso artefice. L’incipit della sua creazione ci parla di un Michelangelo avvilito dalla morte dell’amica Vittoria Colonna e anche lui intimorito dalla fine che si approssima. Nella figura di Niccodemo che abbraccia il trittico di Cristo, della Madonna e della Maddalena c’è il suo autoritratto. Infine la Pietà Rondanini . È il suo ultimo capolavoro: modernissimo nel suo «non finito» — «fa pensare a Giacometti» ha osservato Sergio Risaliti — e struggente in quell’abbraccio che rende Gesù e Maria un’unica cosa». Il corpo di Cristo è inglobato nel grembo di Maria. Quasi fosse tornato all’origine.
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