L’abate di San Miniato “Il resort per privilegiati a Costa San Giorgio tradisce la città di La Pira”

L’intervista a padre Bernardo Gianni
di Ernesto Ferrara «La città è una realtà organica, è come un corpo vivo, ed espiantarne dei pezzi per sottrarli al bene comune è un errore molto grave. Vedere trasformato un luogo come Costa San Giorgio in uno spazio per pochi privilegiati significa tradire la vocazione di quell’architettura e voltare le spalle all’idea di partecipazione che Giorgio La Pira e Giovanni Michelucci ci hanno insegnato». Un grido d’allarme destinato a far rumore, quello di Padre Bernardo Gianni, abate di San Miniato al Monte, che si leva sulla trasformazione in resort dell’ex caserma-convento di Costa San Giorgio, comprata dal magnate argentino Lowenstein. La variante urbanistica è attesa proprio nei prossimi giorni all’ok del Consiglio Comunale e del Quartiere 1, che ne discute in seduta aperta martedì 7.
Padre Bernardo, cosa la spinge a intervenire su Costa San Giorgio?
«Non voglio scendere nella polemica, la mia intenzione è introdurre il punto di vista riflessivo di una persona che ha a cuore il destino del posto dove vive. La città medievale, accanto alla presenza di manufatti di tipo militare, trovava molto spesso la presenza di conventi e chiese di enorme valore storico e sociale come spazi di accoglienza e presidio spirituale. San Giorgio alla Costa, prossima alla porta come la Calza, rappresentano emergenze architettoniche alternative alla difesa militare dal grande significato spirituale. Comprendendo questo, il vedere trasformato uno spazio di bellezza e bene comune come Costa San Giorgio in un albergo per pochi privilegiati vuol dire tradire la vocazione di un’architettura fatta apposta per essere una profezia della Gerusalemme celeste, quella che La Pira identificava come la più vera delle immagini della città, la città le cui porte sono sempre aperte. Un uomo di chiesa come me, peraltro monaco, che vive in prossimità di questo luogo, su un crinale che è un miracolo di concentrazione di bellezza artistica e paesaggistica, non può che accendersi di passione di fronte a questa eventualità».
Eppure quello di San Giorgio è il destino di tanti immobili della città, perchè la sorprende?
«È chiaro che ci sono altre vicende deplorevoli. Penso all’ex ospedale militare di Monte Oliveto, destinato a diventare appartamenti privati. È chiaro che nessuno vive di aria, ma quando iniziano a sparire intere porzioni di storia e identità cittadina semplicemente per profitto, quando spariscono dall’orizzonte del bene comune luoghi costruiti in antitesi alle visioni individualistiche è chiaro che dobbiamo interrogarci sul senso e sul destino della città. Potrei citare Michelucci quando scriveva: “Io vorrei che anche le cose e lo spazio che ci circondano fossero abitati da una sensazione di partecipazione”.
Partecipazione è la parola chiave.
Abbiamo due padri nobili come città, Michelucci e La Pira, che diceva che la città è realtà organica, come un corpo. Il vedere queste porzioni che fuoriescono dal recinto del bene comune, queste sottrazioni di spazi così pregiati, culturali e spirituali, è un segnale improvvido. Sono espianti ad un corpo che vuole essere ancora vivo. Rappresenta, San Giorgio, una grossa chance di partecipazione civile e culturale, non possiamo perdere l’occasione. È un posto da cui la città può pensare a sè stessa, specchio del presente e del futuro, con una valenza simbolica enorme.
Non possiamo perdere la collina di Costa San Giorgio e Monte Oliveto dopo che abbiamo perso la Calza. La Pira ci insegna a interpretare il futuro anche politicodi una cittàattraverso il sogno. E immaginare la collina di San Miniato che diventa un luogo per privilegiati sarebbe all’opposto un incubo. Serve quindi un ragionamento della città che includa nel segno della partecipazione, come dice Michelucci. E l’esempio delle Murate ci dice che è possibile».
Non è tardi per fermare l’operazione?
«Dovevamo e potevamo fare di più.
Ed è solo una parziale attenuante la disponibilità temporanea al pubblico di alcune modeste porzioni dell’immobile da poco annunciata dal Comune. Ma per il futuro almeno evitiamo errori simili. Immaginiamo una città diversa, che difende la destinazione universale di questi beni, che come nella fattispecie di San Giorgio sono anche carichi di pregnanza evangelica in ogni pietra.
Il Vangelo ce lo ricorda quali siano i criteri, “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”.
Nessuno vuole ignorare la complessità della gestione economica di spazi privati e pubblici, ma un ragionamento sulla gratuità e sul bene comune va fatto. La realtà organica della città non può che vivere di partecipazione, altrimenti diventiamo una vetrina, una cosa morta. Di San Giorgio non ho mai parlato col sindaco, spero ci sia modo. Io credo che si possa sognare una città diversa, no?».
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