Che cosa farà il Pd di fronte al deserto di possibili maggioranze di governo? E cosa farà Matteo Renzi? Sono questi gli interrogativi che ieri hanno preceduto e accompagnato l’attesa Direzione dei democratici. E già il fatto che gli interrogativi fossero due – quasi che Renzi e il Pd apparissero agli occhi di molti come entità ormai separate, due cose diverse, insomma – ecco, già questo dice molto della delicatezza del momento. A queste domande – e prima ancora della conclusione della Direzione – osservatori e dirigenti hanno dato e danno risposte diverse. E se è vero che ci vorranno ancora settimane perché il quadro si definisca a sufficienza, le opinioni prevalenti – per ora – paiono andare in direzione diversa da quanto ci si affanna a sostenere in note, documenti e dichiarazioni ufficiali. In sintesi: il Pd, alla fine, sarà costretto a cedere agli appelli di Sergio Mattarella e ad entrare in una qualche (quale?) maggioranza di governo. PAGINA Quanto a Renzi, i pronostici sono più confusi, ma nessuno crede davvero alla parabola del «senatore semplice»: dentro o fuori del Partito democratico – è la previsione – l’ex segretario resterà in campo. E naturalmente non sfugge a nessuno l’abisso che separa quel «dentro» da quel «fuori». Ma in queste ore è soprattutto un altro «o dentro o fuori» a far fibrillare il Pd: e cioè l’ipotesi di far parte di una qualche maggioranza di governo. Nel suo passo d’addio Renzi era stato chiaro: mai al governo con Lega o Cinque Stelle, gli elettori ci hanno messo all’opposizione e lì resteremo. La linea pare condivisa dalla maggioranza del partito, ma nessun se la sente di giurare che sia destinata a resistere in caso di paralisi prolungata. A remare contro, infatti, ci sono molti distinguo e – soprattutto – una storia antica di «responsabilità politica» sulla quale il presidente Mattarella ha cominciato a insistere ormai quotidianamente. Una storia che cominciò con le larghe intese presiedute da Andreotti, riprese con Ciampi – anche se brevemente – negli anni di Tangentopoli, continuò con Lamberto Dini all’alba della Seconda Repubblica e fece con Mario Monti – ormai quasi sette anni fa – la sua ultima comparsa. Insomma, una costante – quella delle larghe coalizioni – utilizzata per fronteggiare ogni tipo di emergenza. Perché, dunque, stavolta no? E visti i numerosi e significativi precedenti, come motivare il «no» ai sempre più preoccupati appelli del Capo dello Stato? Per il Pd, una tenaglia dalla quale non sarà facile uscire: da una parte infatti – i richiami al senso di responsabilità nazionale, dall’altra la volontà dopo la sconfitta elettorale – di avviare un percorso di ricostruzione che è certo più semplice cominciare dall’opposizione. Ma anche Matteo Renzi è di fronte ad un bivio decisivo per il suo futuro: restare nel Pd (come continua ad assicurare) aspettando il tempo di una possibile rivincita oppure scartare e dire addio al partito, magari in ragione di una scelta che cambi la sua indicazione di restar fuori da qualunque governo? È chiaro che, al di là delle necessarie discussioni sui tempi e i modi di elezione del futuro segretario e di quanta collegialità farà uso Martina nel suo traghettamento, quel che importa maggiormente al Paese è sapere se il Pd favorirà o meno la nascita di un governo. Ieri la Direzione ha approvato – con una inedita e larga maggioranza (solo 7 astenuti, vicini ad Emiliano) una linea che conferma l’intenzione di stare all’opposizione e che assegna all’Assemblea nazionale il compito di eleggere un nuovo segretario. Ma fissata la rotta, sono cominciati i distinguo: opposizione sì ma senza aventini, linea netta e dura ma senza dimenticare le responsabilità verso il Paese. È la conferma che tutto è in vorticoso movimento e che le scelte politiche (sul governo) e quelle per il rilancio e la ricostruzione del Partito sono pericolosamente intrecciate e capaci di influenzarsi a vicenda. Cosa che, in tutta evidenza, rischia di complicare ulteriormente il già difficile lavoro del Presidente della Repubblica.