di Massimo Franco
S e ci sarà, si dimostrerà un lungo, tormentato passo indietro. Più che una svolta, la certificazione che una stagione del M5S è finita. Ma è finita da tempo. E il fatto che Luigi Di Maio, incarnazione del grillismo vincente e «governista», si prepari a lasciare non la Farnesina ma la leadership politica, sembra nascere dalla determinazione di Beppe Grillo a puntellare ancora di più l’esecutivo di Giuseppe Conte. La sua uscita di scena è figlia solo in parte delle sconfitte elettorali.
Non basta a spiegare quanto accade nemmeno il rosario di insuccessi locali degli ultimi mesi: scenario che promette di essere confermato alle Regionali di domenica in Emilia-Romagna e Calabria. L’elemento decisivo appare più profondo. Il M5S guidato da lui ormai è in caduta libera a tutti i livelli. Il passaggio quotidiano di parlamentari pentastellati nel limbo del gruppo misto, unito alle accuse di «autoritarismo», sono diventati una miscela tossica. E a Di Maio non basta più la strategia del muro di gomma per evitare una resa dei conti nel segno di Beppe Grillo.
Può darsi che finisca per apparire il tipico capro espiatorio di un Movimento a caccia di colpevoli per la sua crisi di identità. E tuttavia è un ruolo che ha finito per costruirsi da solo, nella convinzione di non avere alternative come leader. Su questo punto probabilmente non ha tutti i torti: non si vede ancora chi possa prendere il suo posto, se non un «reggente» in vista di equilibri futuri. Il problema è che Di Maio non sembra comunque in grado di reggere l’urto di un vertice che vuole puntellare il governo, evitando scarti e smarcamenti.
Invece, negli ultimi mesi, da regista del secondo esecutivo guidato da Conte, proprio Di Maio è apparso una scheggia non sempre allineata alla maggioranza; né in piena sintonia con lo stesso premier, pure indicato dal M5S. Anche l’idea di continuare a giocare la parte del «terzo polo» tra sinistra e Lega ha mostrato la corda, di fronte alle sconfitte a ripetizione. Il rifiuto di allearsi col Pd in Emilia-Romagna, soprattutto, ha portato il Movimento a un disastro già scritto. «Colpevole» di avere favorito la Lega di Matteo Salvini, se dovesse prevalere il centrodestra; irrilevante, se la sinistra dovesse mantenere l’Emilia-Romagna da sola.
Se dunque Di Maio sarà costretto a riconsegnare la leadership, sarà perché ultimamente la sua linea ha destabilizzato i gruppi parlamentari, proiettando ombre di instabilità sullo stesso governo. Sottrargli il Movimento sembra un antidoto disperato per stabilizzare il rapporto col partito di Nicola Zingaretti: comunque vada il voto di domenica. Anche se non è detto che garantisca l’unità interna dei Cinque Stelle. Il timore che le convulsioni di un grillismo in disfacimento si scarichino sulla maggioranza rimane alto. E la possibilità che prenda forma un progetto di scissione non va esclusa.
Ma non si può non rilevare come la parabola di un Di Maio poco più che trentenne sia stata rapidissima nel trionfo e nella caduta: a conferma di una stagione politica che brucia i leader nello spazio di mesi. L’inesperienza si conferma un trampolino di lancio ma alla fine anche una trappola inesorabile. E c’è da chiedersi quale potrà essere il peso di Di Maio come ministro degli Esteri, ora che gli verrà a mancare la legittimazione come «capo politico» dei Cinque Stelle. Pensare che il suo percorso possa essere scisso da quella del Movimento, tuttavia, è un’illusione. Non è facendo fare un passo indietro a lui che i Cinque Stelle recupereranno smalto e voti.
Più prosaicamente, potranno però annunciare una nuova fase, archiviandone una che si è identificata troppo con il loro «capo politico»: prima con la vittoria alle Politiche del 2018, poi con le sconfitte a catena. Ieri, in tv, Zingaretti ha detto che non gli farebbe piacere se Di Maio lasciasse. Ma ha anche insistito sull’errore commesso in tema di alleanze. È chiaro che il suo Pd è interessato più alla sorte di Conte e del governo che a quella del suo giovane, velleitario ministro degli Esteri. A guardare bene, è stato l’asse tra Pd e Palazzo Chigi a accelerare le fratture nel M5S e il ridimensionamento di Di Maio. Con la benedizione di Grillo.