“Soltanto una crisi – reale o percepita – produce vero cambiamento. Quando quella crisi si verifica… il politicamente impossibile diventa politicamente inevitabile”. Così Milton Friedman, l’economista decano della “scuola di Chicago” e teorico della forma più fondamentalista del capitalismo, enuncia una dottrina destinata a un fortunato collaudo negli anni successivi. Una quantità di usi della “strategia dello shock” – lo sfruttamento di una crisi per far accettare alla plebe le peggiori porcate – è studiata dalla giornalista Naomi Klein nel suo Shock economy: il caos provocato da una catastrofe – naturale, sociale, politica – disgrega il tessuto di una società, facendone una tabula rasa su cui diventa possibile sperimentare nuove strategie di governo e di mercato senza alcuna resistenza. Il Cile di Pinochet sfrutterà lo stato di shock derivato dal colpo di stato per trasformarsi nel grande laboratorio del neoliberismo, applicando le dottrine dello stesso Friedman e disfacendo le (fragilissime) conquiste del governo socialista di Allende; i risultati della guerra delle Falkland permetteranno a Margaret Thatcher di sopprimere nel silenzio lo storico sciopero dei minatori inglesi. Non solo crisi politiche: la distruzione provocata dall’uragano Katrina sarà per l’amministrazione Bush l’espediente per la conversione del sistema scolastico di New Orleans in un sistema di scuole “charter” private, perfette per fomentare la disuguaglianza nelle nuove generazioni; il governo dello Sri Lanka allontanerà i pescatori dalle spiagge per plausibili motivi di sicurezza derivanti dallo tsunami del 2004, salvo poi cedere le stesse spiagge ad alberghi destinati a rendere lo stato uno dei paradisi turistici d’Asia.
La pandemia da Covid-19 è stata probabilmente il primo caso di uno shock globale, che non ha risparmiato alcun angolo del mondo. C’è poco da sorprendersi se, secondo il segretario generale dell’ONU, “il virus è stato usato come pretesto in molti Paesi per reprimere il dissenso, criminalizzare le libertà e mettere a tacere le notizie”. Cronache che paiono di paesi lontani e digiuni di democrazia.
Paiono a torto, però. Prendiamo la lettera che Margaret Thatcher scrisse nel febbraio del 1982 all’economista Friedrich von Hayek, in risposta alla proposta di quest’ultimo di trasformare l’Inghilterra in un laboratorio del neoliberismo come già accaduto per le teorie di Friedman in Cile:
“Sono certa che converrà con me che, in Gran Bretagna, con le nostre istituzioni democratiche e la necessità di un elevato margine di consenso, alcune misure adottate in Cile risulterebbero del tutto inaccettabili. La nostra riforma dovrà essere in linea con le nostre tradizioni e la nostra costituzione. A volte il processo sembrerà dolorosamente lento”.
Il modello cileno non è considerato incompatibile con la forma della democrazia: il problema sono i mezzi, che non verrebbero mai accettati in un paese con una tradizione democratica tanto robusta. Il dispositivo retorico che Thatcher usò per colmare questa lacuna e rifilare agli inglesi una politica economica non molto diversa da quella di Pinochet è oggi uno degli slogan più famosi della storia: “There is no alternative”. La retorica dell’inevitabilità è spesso usata a complemento dello stato di shock provocato dalle catastrofi quando persiste la necessità di giustificarsi di fronte a una platea abituata alla democrazia. Proprio come diceva Friedman: il politicamente impossibile, ciò che sarebbe stato impensabile attuare in circostanze normali, diventa col pretesto di una situazione eccezionale il politicamente inevitabile.
“Inevitabile” è tra le parole che ricorrono più spesso nei dibattiti sul Green Pass: si tratta per molti dell’unica soluzione percorribile per mantenere questa fase della pandemia entro limiti gestibili. Soluzione che nessuno avrebbe accettato in condizioni normali, per almeno tre motivi.
Primo, si tratta di una discriminazione di fatto, basata su una scelta che la legge dice essere libera: non solo una fetta più che consistente della popolazione (ad oggi, quasi il 40%) viene esclusa da gran parte dei luoghi pubblici, ma, con una politica comunicativa i cui responsabili sarebbero imputabili di incitamento all’odio, si crea deliberatamente un clima di caccia alle streghe verso i non vaccinati (senza bisogno di scomodare la Shoah suscitando l’indignazione dei più, il precedente storico più prossimo sarebbe forse quello del maccartismo: la designazione e la persecuzione di una categoria pericolosa, forse comprensibile nel suo contesto – in ambito di guerra fredda, avere dei comunisti in casa propria poteva davvero esser pericoloso – ma ricordata oggi come una delle peggiori isterie di massa della storia recente).
Secondo, non sono solo i non-vaccinati a essere colpiti dalla misura: per accedere a luoghi pubblici, chiunque dovrà palesare la propria identità. Ristoratori, responsabili di musei e gestori di palestre vengono forzosamente trasformati in funzionari statali, non pagati e senza qualifica, rendendo il potere sempre più capillare; e soprattutto, si fa così passare come naturale la massima approssimazione alla società del controllo perfetto, spingendo la popolazione a una rinuncia quasi totale a un diritto alla privacy che, in una società basata sull’informazione, costituisce un autentico mezzo di resistenza al potere.
Infine, il Green Pass consiste per molte categorie in un obbligo di fatto a sottoporsi a un vaccino i cui rischi a lungo termine sono ignoti – e la campagna comunicativa in favore della vaccinazione sta puntando soprattutto su quelle fasce di popolazione che statisticamente, per motivi d’età, non rischierebbero quasi nulla dall’infezione (“it’s always the old to lead us to the wars, it’s always the young to fall”, si cantava sessant’anni fa). Tutto questo senza che alcuna parte politica voglia assumersi la responsabilità di eventuali problemi futuri, continuando a far firmare consensi informati che sgravano il potere di ogni conseguenza.
Emarginare chi – a ragione o a torto – si sottrae ai dettami del governo, far percepire come normale un crescente controllo sulla popolazione, rendere illocalizzabile la responsabilità politica. Se i casi studiati da Klein si concretizzavano in “raid orchestrati contro la sfera pubblica”, la gestione della pandemia pare orientarsi non a una soppressione del pubblico, ma a un suo mantenimento in essere, salvo interdirlo a chi non si attenga alla linea governativa. Si tratta di un’appropriazione del pubblico da parte del politico, un politico sempre più difficile da vedere, e che, più che collaborare con la medicina, se ne appropria al fine di assumere il volto della scientificità – il volto dell’inevitabile.
Sarebbe ingenuo pensare che questo possa restare un caso isolato. Anzitutto perché è improbabile che gli effetti delle misure prese in questi mesi cessino insieme allo stato d’emergenza – come ricordano Agamben e Cacciari, la Cina ha già espresso l’intenzione di mantenere le misure di tracciamento anche dopo la fine della fase d’emergenza, e non è impossibile che le future manovre dei governi europei stiano a quelle cinesi come l’Inghilterra di Thatcher è stata al Cile di Pinochet (dopotutto, la situazione attuale mostra come i più, ammaestrati dallo shock, non avrebbero difficoltà ad accettare qualcosa di simile, purché gli venga presentata nelle vesti mitigate e ineluttabili dell’inevitabile). Ma è un altro il motivo più determinante. Ursula von der Leyen ha definito l’epoca in cui stiamo entrando come l’“era delle pandemie”, e i presupposti ci sono tutti, col nostro sistema globalizzato in cui il più insulso dei virus ha la possibilità di viaggiare, moltiplicarsi, mutare, e tramutarsi in un disastro globale. Sarebbe però meglio generalizzare: siamo ormai entrati nell’epoca delle catastrofi. L’interconnessione delle strutture politiche ed economiche rende ogni sbilanciamento in qualche angolo del mondo la potenziale scintilla di una crisi mondiale. Il cambiamento climatico risulta in disastri sempre più frequenti, lo sfruttamento di risorse esauribili si concretizza in guerre per assumerne il controllo, che generano a loro volta ritorsioni terroristiche e risposte a catena.
Rispetto al complottismo di chi pensa di scorgere dietro la pandemia qualche congiura globale – complottismo su cui l’odierna campagna comunicativa sta magnificamente appiattendo chiunque faccia lo sforzo di porsi qualche domanda di troppo – la verità è insieme meno sinistra e più pericolosa. È verissimo che, permettendo al potere di scavalcare la legge a causa di una crisi, si incita il potere a creare una crisi per poter scavalcare la legge, trasformando l’emergenza da una situazione provvisoria in un metodo permanente di governo. Il punto è che, probabilmente, verrà meno la necessità di tale creazione. Approfittando ancora delle parole di Naomi Klein:
“Date le temperature bollenti, sia climatiche sia politiche, i futuri disastri non avranno bisogno di cospirazioni segrete. Tutto laccia pensare che, se le cose restano come sono ora, i disastri continueranno a presentarsi con intensità sempre più feroce”.
Abbiamo posto le condizioni perché normalità e crisi, quotidiano e catastrofico vengano a coincidere sempre più.
Abbiamo, di conseguenza, creato le condizioni che permetterebbero di travestire da “inevitabile” qualunque provvedimento politico. L’inevitabile sarà la forma normale dell’arbitrarietà politica nell’era delle catastrofi. Per questo è soprattutto l’inevitabile che servirà identificare e smascherare, è contro l’inevitabile che servirà resistere e lottare. A costo di combattere contro ciò che dà forza a questa pretesa di inevitabilità, sia pure la scienza o la medicina – o piuttosto, con lo sforzo di ricondurre entrambe a una consapevolezza critica che le potrebbe sottrarre a un ruolo tutt’altro che scientifico di giustificazione del potere.