di Dario Di Vico
L a prima vera crepa dentro il governo bicolore si è aperta, dunque, sulle grandi opere. Ed è interessante analizzarla perché ha una valenza che va al di là del tema, pur rilevante, in discussione. Sembra dimostrare come il contratto di governo non fosse la sintesi dei programmi dei due partiti vincitori del 4 marzo ma una sorta di «somma al lordo» degli impegni presi con i rispettivi elettorati o meglio con le varie constituency, piccole e grandi, che li componevano. Una «somma al lordo» perché non sceglieva le priorità in base a un obiettivo condiviso e perché teneva al di fuori di quell’elaborazione il sacrosanto principio di realtà. Per dirla in soldoni la crepa sulle grandi opere dimostra come l’esecutivo presieduto da Giuseppe Conte non abbia un’idea comune sullo sviluppo italiano e pur presentandosi come governo di legislatura non ha in mente cosa debba essere, pur a grandi linee, l’Italia del 2023. Ma torniamo pure alle infrastrutture e al criterio-guida che dovrebbe servire a individuare le priorità, criterio che non può che riferirsi all’economia reale e alle sue trasformazioni.
La discreta ripresa che abbiamo conosciuto dal 2015 al 2017 ha presentato tra le altre una caratteristica nuova, o comunque più accentuata che in passato: l’alto contenuto di mobilità. I tecnici del settore arrivano a formulare analisi molto dettagliate del rapporto tra flussi e Pil, in questa sede può essere sufficiente ricordare come negli anni della Grande crisi l’Italia abbia conosciuto una riorganizzazione profonda del sistema produttivo.
I l ciclo si è scomposto e poi ricomposto in quelle che siamo soliti definire filiere, i grandi centri della produzione sono dimagriti e si sono allungati. Il numero dei partner che lavora per una grande/media azienda si è moltiplicato e per ogni stazione della filiera l’azienda-madre non sceglie più in base alla prossimità ma alla qualità della fornitura. Ciò significa che gli stessi distretti hanno cambiato pelle e che il volume delle merci e le distanze coperte sono aumentati di qualche taglia. Lo stesso straordinario successo dell’export italiano ha comportato un drastico aumento della mobilità non solo in uscita ma anche in entrata, visto che siamo un Paese trasformatore e la quota di beni intermedi incorporata nei prodotti made in Italy è elevata.
L’alta mobilità è, dunque, una cifra peculiare dello sviluppo italiano della seconda parte degli anni Dieci e almeno di convertirci tutti — ma proprio tutti — alle teorie della «decrescita felice» siamo obbligati a tenerne conto e ad accompagnarne le tendenze. Vale la pena aggiungere come nella competizione tra sistemi di mobilità a vincere sia stato il trasporto su gomma, rivelatosi più duttile del ferro nel servire la nostra economia distrettuale e più versatile nell’adattarsi al cambiamento indotto dal boom del commercio elettronico. Le ferrovie, dal canto loro, hanno visto incrementare la propria attività grazie all’aumentata mobilità delle persone, a sua volta propiziata dall’integrazione dei mercati del lavoro locali, dal successo di pubblico incontrato dall’Alta velocità e dall’evoluzione degli stili di vita. Ci si ritrova su Facebook ma poi ci si incontra davvero.
In estrema sintesi è questo il punto di partenza per una discussione seria sulle infrastrutture italiane e colpisce come questa riflessione sia assente non solo dal contratto di governo ma anche dalle interviste che i ministri — una volta si usava aggiungere «competenti» — rilasciano. Sia per la mobilità sia per l’occupazione il governo non sa cosa serva davvero alle imprese o comunque lo considera secondario, prevale un’impostazione di tipo politicista e un rapporto «a specchio» con le proprie constituency elettorali. Persino Matteo Salvini quando deve replicare agli imprenditori veneti li definisce «politicizzati» (dimostrando così di conoscerli molto poco) mentre l’altro vice premier Luigi Di Maio continua a manifestare nei confronti dell’impresa un sentimento di rivalsa. Se uscissero dalla trincea politico-ideologica nella quale si sono rinserrati, i massimi responsabili della politica italiana dovrebbero ragionare su un programma di legislatura che abbia proprio al centro la logistica e l’industria della mobilità.
Infatti mentre il teatrino della politica privilegia il dibattito con le tribù dei No-Tav e dei No-Tap l’economia reale non sta ferma. Quello che abbiamo definito «il nuovo triangolo industriale» Treviso-Bologna-Milano chiama politiche innovative che abbraccino logistica, integrazione dei mercati del lavoro (per evitare il disallineamento tra domanda e offerta), un nuovo rapporto tra le cittadelle del sapere e i distretti manifatturieri. Ma c’è di più: la rivoluzione delle filiere non ha riguardato (ovviamente) solo i flussi nazionali ma sta ridisegnando i rapporti tra i sistemi economici nazionali. Quanta parte del nostro Nord è inserita in quella che semplificando possiamo chiamare «l’area economica tedesca allargata»? E quanto significativa è la presenza delle nostre migliori aree di fornitura nelle catene del valore dell’industria del lusso francese? Se il ministro Di Maio pensa di governare queste dinamiche con le sue norme anti-delocalizzazione resterà deluso, in realtà servirebbe il contrario: provvedimenti ed esternalità (le infrastrutture in primis) che assecondino queste trasformazioni. E consentano alle imprese italiane di mantenere sul territorio sia il «valore artigiano» sia la ricerca. In ultimo è doveroso ricordare i mega-progetti cinesi della Via della Seta e le eccezionali ricadute che quella opzione comporterebbe per il traffico nel mare Adriatico, la portualità e l’industria della logistica. Ma forse ne parleremo solo quando sarà nato un comitato No-Seta.
Ps. A proposito di partiti ed elettorati a cinque mesi dal voto manca ancora un’analisi di spessore sulle trasformazioni «passive» del Sud e il successo dei Cinque Stelle.
Martedì 7 Agosto 2018, Corriere della Sera:https://www.corriere.it/