BERLINO. Martin Schulz è stato un ministro degli Esteri designato per sole 36 ore. Appena si è diffusa la notizia che avesse strappato a sé quella poltrona nell’ambito delle trattative con Angela Merkel e Horst Seehofer sulla Grande coalizione, è partita la contraerea. E lo Ziggy Stardust della politica tedesca, l’alieno catapultato un anno fa da Bruxelles a Berlino e issato come un dio alla guida di un partito allo sbando, è stato stracciato in mille pezzi. Dopo un giorno e mezzo di pressioni sempre più pesanti, l’ex presidente del Parlamento Ue ha dovuto comunicare ieri che non farà il ministro: “Rinuncio a un posto nel governo”, ha scritto. E secondo il più classico dei copioni, il suo nemico più acerrimo, Sigmar Gabriel, ora si frega le mani nella speranza di strappargli lo scettro di ministro degli Esteri. Ma anche lui dovrà contare su una forte resistenza interna. Un’uscita di questi giorni potrebbe aver azzoppato anche l’attuale capo della diplomazia.
Stando alle cronache, alla vigilia del cruciale referendum nella Spd sulla Grande coalizione, il quartier generale era stato sommerso da 6.000 mail e telefonate, invariabilmente inferocite. E secondo la Bild la rabbia era tutta diretta verso Schulz. Va bene la Grande coalizione, recitavano molti messaggi, ma Schulz non può fare il ministro. Quella sicumera con cui il leader della Spd aveva dichiarato un giorno dopo le elezioni che mai avrebbe fatto parte di un governo Merkel, è stata la sua condanna. La mancanza di coerenza, in Germania, è ancora un peccato.
Molti avrebbero gradito poco anche la sua rinuncia frettolosa alla poltrona più alta della Spd comunicata mercoledì sera, il palese tentativo di sbolognare la complicatissima ricostruzione del partito ad Andrea Nahles. Tra i socialdemocratici ci si ripete ancora la famosa frase di Frank Muentefering, che disse di considerare la guida della Spd “il secondo mestiere più bello del mondo dopo quello del Papa”. Schulz se n’è liberato come di un peso e ha segnalato la volontà di scappare dalle lotte intestine prenotandosi un posto da ministro.
Così, complice una conference call con molti big locali e pressioni schiaccianti arrivate soprattutto dal Land di provenienza di Schulz, l’influentissimo Nordreno-Westfalia, l’ex leader della Spd ha fatto un passo indietro. Se l’assenso degli iscritti al contratto di coalizione rischia di essere messo in pericolo “dalla discussione sulla mia persona”, ha scritto nel comunicato, non farò parte del governo. Le “mie ambizioni personali vengono dopo quelle del partito”.
Ora Gabriel spera di restare al suo posto. Ma secondo indiscrezioni un suo commento di dubbio gusto su Schulz lo avrebbe messo in una pessima luce. Gabriel ha raccontato del dispiacere della figlia piccola per non essere stato confermato ministro. Gli avrebbe detto: “Papà non devi essere triste, adesso hai più tempo per noi. È meglio che con quel signore con i peli in faccia”. Una scivolata patetica che fa storcere la bocca a molti. I prossimi giorni aiuteranno a fare chiarezza, su quel ministero cruciale. Intanto Gabriel ha deciso di confermare la sua presenza alla Conferenza di Monaco.
Schulz, invece, precipita nel baratro senza un paracadute. E come dimostra il caso della “Merkel rossa”, della ex potentissima Hannelore Kraft, che tutti vedevano già come successora di Angela Merkel finché non ha osato perdere le elezioni nel Land più importante, il Nordreno-Westfalia, il partito non perdona. È sparita.
Anche Schulz ha tutta l’aria di essere diventato in questi mesi il perfetto capro espiatorio di un partito in crisi di identità da dieci anni che sta cercando di dimenticare di averlo chiamato un anno fa a frenare una incontenibile emorragia di voti. Proprio Sigmar Gabriel lo aveva fatto precipitare al 20%. E aveva chiamato Schulz a gennaio del 2016 da Bruxelles. Dove la sua fama era scoppiata con l’affaire Berlusconi, quando l’ex presidente del Consiglio lo aveva apostrofato come Kapò. E in un anno – in cui l'”alieno” brussellese è stato spesso pugnalato al fianco proprio da Gabriel – Schulz è stato prima buttato in una campagna elettorale senza un programma, come un bambino nell’acqua fredda, poi massacrato dopo aver perso le elezioni, infine sacrificato sull’altare di un referendum che i vertici della Spd devono vincere ad ogni costo.