CLAUDIO TITO,
ROMA
Il vero problema non è questa manovra economica. Ma che non si può fare quella del prossimo anno». Basta parlare con qualsiasi parlamentare della maggioranza, in particolare i leghisti, per cogliere il vero stato d’animo che la coalizione gialloverde sta vivendo. I sei mesi del governo Conte, infatti, al di là di un bilancio consuntivo piuttosto modesto, è già appesantito da un bilancio preventivo a tinte foschissime. Un esecutivo che appare senza futuro, con un programma inaridito. Nel quale le spinte verso le elezioni anticipate entro il prossimo anno stanno diventando irreprimibili.
Un orizzonte appannato proprio da questi 180 giorni passati a Palazzo Chigi. Nei quali hanno preso il sopravvento due dati: l’inversione dei rapporti di forza tra i due partiti, con il Carroccio leader in tutti i sondaggi e una capacità superiore di incidere sulla coalizione. E la difficoltà di imporre sul piano economico molte delle promesse elettorali.
Basti prendere in considerazione alcuni dati che riguardano il nostro sistema finanziario e le premesse su cui questo gabinetto è nato. Lo spread con i titoli di Stato tedeschi è aumentato di oltre 50 punti dal primo giugno, data di nascita del governo. Di quasi 150 dalle elezioni del 4 marzo. Il valore della Borsa di Milano, invece, è sceso, sempre dal primo giugno, di oltre il 13 per cento.
Ma c’è una frase pronunciata il 5 giugno scorso dal presidente del consiglio in occasione del dibattito sulla fiducia al Senato che fa capire quanto le prospettive siano cambiate: «Il reddito di cittadinanza lo erogheremo in una seconda fase». In una seconda fase. Questo gabinetto avrebbe dovuto quindi avere una prima fase e una seconda. Una prospettiva di legislatura per realizzare il famigerato contratto. Ma la competizione interna, il terreno scavato da Salvini sotto le scarpe di Di Maio, ha fatto collassare tempi e aspettative di questa strana coalizione. Il reddito di cittadinanza si è così trasformato in una questione di vita o di morte per il Movimento 5 Stelle da realizzare subito e non nella «seconda fase», con tutte le controindicazioni logistiche e le confusioni organizzative che stanno già emergendo.
Il punto è proprio questo. La maggioranza gialloverde si muove come se non ci fosse un futuro.
Tutto e subito. La trattativa con Bruxelles sulla legge di Stabilità corre lungo questi binari. Nella consapevolezza di non poter affrontare la prossima Finanziaria, quella del prossimo anno. La stessa Commissione europea ha ormai avviato la procedura d’infrazione non solo per i saldi contenuti nella legge in esame ora in Parlamento, ma soprattutto per le previsioni legate ai due anni successivi. Con parametri che già ora presentano tutta la loro inattendibilità e irrealizzabilità. A cominciare dalla crescita del Pil.
Mentre in tutto il mondo si comincia a fare i conti con una fase di recessione – nel terzo trimestre di quest’anno crescita zero per l’Italia, per la Germania addirittura segno meno – il governo prevede un pil in rialzo nel 2019 dell’1,5 per cento e nel 2020 dell’1,6 per cento. Dati che rendono sostanzialmente già adesso impraticabile una manovra economica che rispetti il “contratto” gialloverde. Tenendo presente che i due cavalli di battaglia – quota 100 e reddito di cittadinanza – il prossimo anno saranno a regime e quindi peseranno su tutto l’anno e non solo su una parte come previsto per il 2019.
Il tutto poi è acuito da una situazione politica che ha già bruciato i risultati del 4 marzo scorso. «Da oggi – diceva il 2 giugno Di Maio – lo Stato siamo noi». Contestualmente Salvini prudentemente affermava: «Chi comanda tra noi e i grillini? Il presidente Conte». Frasi che testimoniavano l’egemonia elettorale dell’M5S. Ma la considerazione fatta dal leader leghista, adesso nessuno la ripeterebbe. Non solo il premier si sta rivelando un mero esecutore, in più la Lega è riuscita a “marchiare” questo esecutivo. I sondaggi mostrano allora come la forza di Salvini sia quasi raddoppiata in sei mesi – sforando il tetto del 30 per cento dei consensi – e quella pentastellata sia sensibilmente calata. In politica i rapporti di forza non sono mai un elemento ignorabile per troppo tempo. E con le elezioni europee di maggio, potrebbe diventare lampante.
Per di più il Carroccio, evitando tutti i provvedimenti di spesa e concentrandosi su immigrati e sicurezza ha incassato in termini di visibilità. Ha iniziato il 10 giugno con la vicenda della nave Aquarius per arrivare in queste ore sulla legittima difesa risollevata dal caso dell’imprenditore di Arezzo che ha ucciso un ladro nella sua azienda. Il Movimento al contrario ha dovuto fare i conti con una serie di dietrofront e disorganizzazioni. Ha ingoiato il via libera all’Ilva di Taranto e al Tap, il gasdotto che arriva in Puglia. Il primo provvedimento “pesante” del governo è stato il decreto dignità – elaborato da Di Maio – che tra diverse traversie è stato varato dopo un mese e pur avendo come titolo ”addio al jobs act”, ha mantenuto la cancellazione dell’articolo 18. Il decreto Genova – ideatore Toninelli – è arrivato, alla faccia dell’urgenza, dopo ben 45 giorni dalla tragedia del Ponte Morandi.
Per difendersi, allora, hanno preso ad attaccare i giornalisti. Aveva anticipato tutti il 9 giugno Davide Casaleggio lamentando il fatto che «i media non riportano l’immagine reale dell’Italia».
Ma non è colpa dei media se ormai quasi tutti, nella maggioranza, parlano di un governo non più di legislatura ma con la scadenza incorporata.
Il governo si muove nella logica del “tutto e subito” perché nessuno scommette più sulla durata