Il commento
Alla fine il PdR (partito di Renzi) è nato davvero. La confezione delle liste ha dimostrato il dominio assoluto di cui gode oggi il segretario del Pd. Non solo: ha posto le basi per il mantenimento di tale dominio. Alla fine il PdR (partito di Renzi) è nato davvero. Con un po’ di ritardo rispetto alla tabella di marcia – la vittoria nel referendum doveva dar vita al big bang – e senza grandi proclami, il progetto è arrivato in porto. La confezione delle liste ha dimostrato il dominio assoluto di cui gode oggi il segretario del Pd. Non solo: ha posto le basi per il mantenimento di tale dominio. Qualunque cosa accada alle elezioni, sia che vinca sia che perda – l’asticella è posta al 25,6%, risultato delle ultime elezioni – Renzi avrà il controllo di almeno tre quarti dei parlamentari. Grazie a una falange così compatta potrà manovrare a piacimento su ogni terreno in Parlamento, dal sostegno a un governo del presidente/tecnico/delle astensioni, ad accordi con ogni altra forza politica. Quando si dominano a tal punto il gruppo parlamentare e gli organi di partito, un leader volitivo qual è Renzi può agire con la massima libertà. In questo, è sullo stesso piano di Berlusconi, tuttora dominus assoluto del suo partito. Nemmeno Salvini è così libero da condizionamenti interni, pur avendo fatto strage di maroniani nelle liste: il fortino veneto non è nelle sue mani, deve tener conto di Zaia. E nei 5 Stelle il garante sembra volersi dedicare ad altro, mentre al capo politico, Di Maio, manca l’autorevolezza necessaria per esercitare un’effettiva autorità.
La durezza con cui Renzi ha gestito le trattative per definire le candidature è direttamente proporzionale alla debolezza dei suoi avversari.
L’opposizione si è sbriciolata, anzi si è accontentata delle briciole. Non ha avuto la forza di reagire. Del resto, la strategia di Renzi era chiara: spingere gli avversari interni verso il limite della rottura confidando nel loro cedimento all’ultimo minuto, per convenienza o amore di partito. Poi qualcuno non accetta il gioco e rompe lo schema, come ha fatto Cuperlo quando ha rifiutato di candidarsi in un collegio purchessia, senza nessun rapporto con i militanti. Oppure, esce dal partito e se ne va. In effetti, durante la segreteria Renzi si è assistito a uno stillicidio di fuoriuscite, individuali e collettive.
Questa emorragia di quadri dirigenti e intermedi, nonché di iscritti ( il partito è al minimo storico), avrà forse impoverito il Pd di voci diverse ma ha consentito al leader di aumentare la propria supremazia. I risultati si sono visti già l’anno scorso quando Renzi ha avviato un congresso-lampo a suo uso e consumo senza che l’opposizione interna alzasse la voce. Poi, una volta stravinte le primarie grazie anche a candidature alternative inconsistenti, ha ridotto al minimo la presenza delle opposizioni in direzione. E ora, forte di una maggioranza bulgara negli organi dirigenti, ha potuto giostrare le candidature. Non c’è da stupirsi che le minoranze interne si siano ridotte a pietire con il cappello in mano qualche strapuntino. Raccolgono i frutti amari di una strategia sbagliata: non si sono mai preoccupate di organizzare una opposizione degna di questo nome.
Senza idee da contrapporre con grinta e caparbietà alla politica della maggioranza, la leadership ha gioco facile a imporre la sua linea. Ora la vita del Pd è ridotta all’approvazione plaudente delle relazioni-fiume del segretario, senza uno straccio di dibattito. Il culto del capo ha infettato il corpo di un partito un tempo plurale, articolato e dialettico.
La durezza con cui Renzi ha gestito le trattative per definire le candidature è direttamente proporzionale alla debolezza dei suoi avversari.
L’opposizione si è sbriciolata, anzi si è accontentata delle briciole. Non ha avuto la forza di reagire. Del resto, la strategia di Renzi era chiara: spingere gli avversari interni verso il limite della rottura confidando nel loro cedimento all’ultimo minuto, per convenienza o amore di partito. Poi qualcuno non accetta il gioco e rompe lo schema, come ha fatto Cuperlo quando ha rifiutato di candidarsi in un collegio purchessia, senza nessun rapporto con i militanti. Oppure, esce dal partito e se ne va. In effetti, durante la segreteria Renzi si è assistito a uno stillicidio di fuoriuscite, individuali e collettive.
Questa emorragia di quadri dirigenti e intermedi, nonché di iscritti ( il partito è al minimo storico), avrà forse impoverito il Pd di voci diverse ma ha consentito al leader di aumentare la propria supremazia. I risultati si sono visti già l’anno scorso quando Renzi ha avviato un congresso-lampo a suo uso e consumo senza che l’opposizione interna alzasse la voce. Poi, una volta stravinte le primarie grazie anche a candidature alternative inconsistenti, ha ridotto al minimo la presenza delle opposizioni in direzione. E ora, forte di una maggioranza bulgara negli organi dirigenti, ha potuto giostrare le candidature. Non c’è da stupirsi che le minoranze interne si siano ridotte a pietire con il cappello in mano qualche strapuntino. Raccolgono i frutti amari di una strategia sbagliata: non si sono mai preoccupate di organizzare una opposizione degna di questo nome.
Senza idee da contrapporre con grinta e caparbietà alla politica della maggioranza, la leadership ha gioco facile a imporre la sua linea. Ora la vita del Pd è ridotta all’approvazione plaudente delle relazioni-fiume del segretario, senza uno straccio di dibattito. Il culto del capo ha infettato il corpo di un partito un tempo plurale, articolato e dialettico.
La Repubblica – Piero Ignazi – 29/01/2018 pg. 1 ed. Nazionale.