Come Griselda, Fiammetta, Saladino e gli altri affrontano la vita rinnovata che li aspetta, anche noi scopriremo di aver fatto un lungo viaggio nel nostro spirito. Poi, come accadde nell’Atene di Pericle, nella Roma degli Antonini, nella Firenze di Boccaccio, tornerà la gioia di vivere.
di Franco Cardini
Al tempo del Coronavirus potrebbe essere ricordato come quello della riscoperta di molte cose. Certo, non tutti lo stanno affrontando allo stesso modo. Ci sono i ribelli, gli iperimpressionabili, gli insoddisfatti, gli inquieti, i noncuranti, e anche – va detto – qualche incosciente; c’è chi spinge la propria insensibilità sociale fino all’autolesionismo, facendo con le proprie scelte inconsulte correre dei rischi anche gravi a se stesso e agli altri; c’è chi si lascia andare alla noia o alla depressione; e chi non ha i mezzi per difendersi. Eppure si può dire che una società civile resa fragile da troppi anni di progressiva ineducazione alla socialità, allo spirito comunitario e al rispetto civile, una società abituata a sopravvalutare i diritti individuali e a trascurare i doveri sociali, nel complesso possiamo sperare che regga, deve reggere e dobbiamo fare in modo che regga. Il che finirà col dare ragione a uno dei proverbi che con maggior frequenza circolano nei media e on line in queste settimane di rinunzia e di clausura forzate: «non tutto il male viene per nuocere». Riscoprire la casa e la famiglia, come occupare il tempo forzatamente libero e come impiegare quello nel quale molti di noi sono comunque costretti a lavorare in vari modi a domicilio, ci obbliga a riflettere anche su noi stessi e sulla nostra vita, a confrontarci con un sia pur provvisorio bilancio, magari a metterci in regola a proposito di crediti da esigere e di debiti da onorare (non solo economici). Ed è poi una gran bella avventura, per chi può permettersela in quanto dispone di spazi adatti, il riordino di cantine e solai e magari il giardino o l’orto oppure – poiché questi tipi di lusso sono riservati agli happy few che hanno le belle grandi case di una volta – sistemare il garage e il balcone, divenuto ormai autentico spazio della vita pubblica.
Badate: facciamo attività fisica, magari pesante, ci sporchiamo un po’ ma si uscirà tutti da quest’esperienza scoprendo – provare per credere – di aver fatto un lungo viaggio soprattutto nella nostra mente, nel nostro spirito.
E poi ci sono i libri. Purtroppo le librerie – che, sia pur modeste e di pochi scaffali, fino a pochi anni fa erano un mobile obbligatorio in tutte le case appena un po’ meno che povere – oggi sono scomparse anche da quelle degli straricchi, cosa che non sono pochi a giustificare con alibi miserandi del tipo: «oggi ormai si trova tutto nel computer». Ma il rispolverare (in tutti i sensi) qualche vecchio libro dimenticato su uno scaffale, indugiare un istante a rileggere una pagina dimenticata, a ricercare o a ritrovare una vecchia emozione, è un’altra cosa. Ai più anziani torneranno magari in mente quei quattro magici versi d’una canzone d’una volta, “Signorinella” di Libero Bovio e Nicola Valente: «Il mio piccino / in un mio vecchio libro di latino / ha trovato, indovina […] una pansé: / e dentro gli occhi mi spuntò una lacrima». E chi se lo ritrova sottomano, rilegga un po’ quel romanzo di Umberto Eco, che ha avuto meno successo degli altri, “La misteriosa fiamma della regina Loana”, e la descrizione della paradisiaca soffitta di quella grande casa tra Langhe e Monferrato, in cui l’io narrante s’immerge nella caccia ai tesori dimenticati, libri e quaderni, giornali e periodici, diari e scartafacci, per ritrovare il suo tempo perduto. Sono di questo genere i doni della pandemia. A volte, il male viene addirittura per giovare. Forse ne usciremo fortificati: magari anche nello spirito. Chissà che non ci ritroveremo immunizzati: dalla noncuranza, dalla negligenza, dalla superficialità.
Leggere, dunque. E magari leggere tutti insieme, leggere a voce alta come facevano gli antichi (Agostino, giunto a Milano e recatosi pieno di devozione a visitare il vescovo Ambrogio, si meravigliò trovandolo immerso in una muta lettura mentale: una rivoluzione, ai suoi tempi…); o ascoltare – in questa civiltà che ha perduto il dono di gustare l’ascolto – qualcuno che legge.
Il potere terapeutico della lettura, come quello del racconto orale, i nostri vecchi lo conoscevano bene; e molti medici oggi lo sostengono con convinzione. Raccontare a un bambino una fiaba anziché parcheggiarlo dinanzi alla TV, e riuscire a fare in modo che alzi gli occhi dal piccolo schermo o abbandoni la sua playstation per ascoltare una storia e “vederla” con gli occhi della fantasia, provoca oggi una sensazione portentosa in chi riesce a guadagnarsela. Può davvero, il leggere e il sentir leggere, guarire dall’ansia, dall’inquietudine, dalla paura, far sentire più forti e più liberi? Quando leggo le parole degli antichi e quasi ne sento la voce – diceva il vecchio Machiavelli – «non mi sbigottisce la morte».
Oggi possiamo provarla di nuovo, una sensazione del genere, e collaudare la forza del racconto letterario e storico, rivisitando un capolavoro del nostro Trecento italiano ch’è senza dubbio una delle più grandi opere mai scritte al mondo: il “Decameron” di Giovanni Boccaccio. Peccato che oggi sia sempre meno la gente disposta a leggere i classici. Peccato che, secondo il parere di troppi, certe esperienze debbano circoscriversi ai banchi di scuola e siano inutili per la vita.
Circa sei secoli e mezzo fa un non più giovanissimo studioso, intellettuale e personaggio pubblico fiorentino – aveva circa quarant’anni: ma a quel tempo non erano pochi – piuttosto malfermo in salute e minacciato da quella che noi chiamiamo “depressione”, scrisse presumibilmente nel giro di cinque anni o poco più, un grosso romanzo, che purtroppo la stragrande maggioranza di chi lo conosce o dice o crede di conoscerlo, considera una raccolta miscellanea di cento novelle e omette di leggerla, magari saltandola a piè pari, quella che non solo è la parte fondamentale, ma che per certi versi è, nel suo complesso, perfino l’elemento più bello e certo il più significativo del “Decameron”: la “cornice”, che alla sequenza delle novelle e alle dieci giornate nelle quali esse sono scandite conferisce un senso preciso. Là, in quelle disquisizioni che possono sembrare scolasticamente prolisse e in quelle descrizioni che possono sembrare goticamente ridondanti, si nascondono invece non solo (e a chiare note!) il presagio dell’ormai prossima cultura umanistica, ma anche il senso e la chiave di lettura di tutta l’opera, che risiede per intero nella vicenda catartica della bella compagnia dei tre giovani e delle sette dame e donzelle, nel loro insieme e in quella di ciascuno di loro, attraverso l’originale, irripetibile percorso delle dieci novelle che ciascuno di loro narra in altrettanti giorni. E saranno dieci giorni al termine dei quali gli altrettanti protagonisti si troveranno, ciascuno a suo modo, «puri, e disposti a salire alle stelle»: stelle terrene tuttavia, per quanto illuminate dalla fede e dalla ragione; il futuro di una vita rinnovata che li aspetta, da percorrere con sicura e serena fiducia. Perché gli autentici protagonisti dell’opera non sono né Masetto da Lamporecchio, né Andreuccio da Perugia, né Bruno e Buffalmacco, e neppure il nobilissimo Saladino, e neanche la sublime Griselda: bensì, appunto, Pampinea, e Fiammetta, e Dioneo, e Neifile, e le altre e gli altri.
Personaggi scaturiti dalla fantasia del Boccaccio, senza dubbio: ma che hanno guardato nella loro Firenze, per alcuni giorni, la Morte Nera negli occhi, ne hanno avvertito il frusciare del mantello, del suo mantello color della notte alle loro spalle, ne hanno còlto il fiato gelido sulla loro nuca. E sanno di dovere uscire dall’angoscia che tutto ciò ha loro provocata, così come lo sa il loro creatore, che ha intravisto al pari di loro la Signora del mondo camminargli accanto.
Perché di ciò anche noi, in questi giorni, sia pure in modo infinitamente meno drammatico, siamo stati testimoni: restando chiusi nelle nostre case, come gli ebrei compagni e seguaci di Mosè nella notte tremenda del Passaggio dell’Angelo che rapisce tutti i primogeniti d’Egitto e passa oltre gli stipiti segnati dal sangue dell’agnello sacrificale. Leggere di un pericolo, di uno spavento, di una tragedia, può essere un’esperienza sconvolgente; vederla ritratta in affreschi, in quadri, in fotografie, o doverla rivivere attraverso il cinema o la televisione, può essere terribile: ma viverla di persona, sentirsela addosso e dentro fin sotto la pelle e le ossa, è ancora peggio. Eppure sono esperienze che maturano, che fanno crescere, che aiutano a comprendere tante cose. Ed è quanto, sia pure in una misura minimale o comunque leggera, sta accadendo a noi.
Ecco perché, come sentiamo in infiniti racconti in TV o alla radio, molti tornano a frugare, dopo chissà quanto tempo, nella loro magari modesta biblioteca di casa, dove tuttavia abbastanza spesso hanno rintracciato una copia del “Decameron” e dei “Promessi Sposi”. E attraverso messer Giovanni Boccaccio che vide la peste fiorentina del 1348-’50 e forse (non lo sappiamo, né lui ce lo dice) ne fu toccato, e attraverso Alessandro Manzoni che la peste milanese del 1630 si limitò a studiarla sulle carte ma che epidemie, tra vaiolo e colera, ne conobbe altre, abbiamo anche noi collezionato la nostra porzione di paure, il nostro sacchetto di emozioni. Nihil sub sole novi, in fondo: prima avvisaglie lontane, alle quali nessuno crede; poi i rumori di qualcosa che si avvicina, come il suono d’una mareggiata o il frastuono d’un bosco sferzato dalla pioggia; e le mille ipotesi, le supposizioni più folli, la ricerca maniacale d’un capro espiatorio al quale dare la colpa di tutto e su cui sfogarsi; e le tante storie che s’incrociano sul male implacabile e sulla scienza impotente; e infine l’orrore, che magari non si vede ma che ci viene narrato e s’ingigantisce nei racconti che ci assalgono, e la paura che ti consiglia di sfuggire all’abbraccio degli amici e perfino degli affetti più prossimi, e l’ansia con la quale scruti il tuo corpo alla ricerca dei segni del male, e il contagio che visita le case dei poveri come i palazzi del potere, e le strade deserte, e le chiese sbarrate…
Sarà interessante, sarà dolce, sarà perfino divertente ricordarsene, quando tutto sarà definitivamente passato da un tempo sufficiente a far agire quella saggia legge naturale che ci fa sempre ricordare le cose buone e piacevoli, mentre la memoria di quelle tristi e dolorose col tempo si attenua e scompare… Poi, come accadde nell’Atene del tempo di Pericle, nella Roma degli Antonini, nella Costantinopoli di Giustiniano, nella Firenze di Messer Boccaccio, nella Milano di Renzo e Lucia, dopo il pericolo e la paura torna la gioia e la voglia di vivere, e le energie dilagano decuplicate, e si lavora a riempire i vuoti lasciati dalla tragedia, e le società si risvegliano e rifioriscono. Perché anche questo c’insegna Magistra Pestis. D’altronde, il ricorso è sempre qualcosa di doveroso e di prezioso al tempo stesso. Ricordare? Ma l’uomo – diceva Lucien Febvre – non ricorda mai nulla: ricostruisce sempre. O magari “reinventa”, nel senso che i latini attribuivano al termine inventio.
Questo libretto, “Le cento novelle contro la morte” (Salerno editrice), se ne avrete il tempo e la voglia, vi aiuterà a capire quel che stiamo attraversando e a ricordare quel che infinite generazioni hanno attraversato prima di noi: e a trarne utili frutti di riflessione per il futuro. La storia non si ripete mai, eppure il suo procedere – elicoidale, si direbbe – ci ripropone di continuo situazioni e casi mai identici a se stessi, eppure simili, del passato, per poi fermarsi su un momento, esemplare in quanto illuminato da un capolavoro che ci aiuta a comprenderlo e a comprendere meglio noi stessi.
Badate: facciamo attività fisica, magari pesante, ci sporchiamo un po’ ma si uscirà tutti da quest’esperienza scoprendo – provare per credere – di aver fatto un lungo viaggio soprattutto nella nostra mente, nel nostro spirito.
E poi ci sono i libri. Purtroppo le librerie – che, sia pur modeste e di pochi scaffali, fino a pochi anni fa erano un mobile obbligatorio in tutte le case appena un po’ meno che povere – oggi sono scomparse anche da quelle degli straricchi, cosa che non sono pochi a giustificare con alibi miserandi del tipo: «oggi ormai si trova tutto nel computer». Ma il rispolverare (in tutti i sensi) qualche vecchio libro dimenticato su uno scaffale, indugiare un istante a rileggere una pagina dimenticata, a ricercare o a ritrovare una vecchia emozione, è un’altra cosa. Ai più anziani torneranno magari in mente quei quattro magici versi d’una canzone d’una volta, “Signorinella” di Libero Bovio e Nicola Valente: «Il mio piccino / in un mio vecchio libro di latino / ha trovato, indovina […] una pansé: / e dentro gli occhi mi spuntò una lacrima». E chi se lo ritrova sottomano, rilegga un po’ quel romanzo di Umberto Eco, che ha avuto meno successo degli altri, “La misteriosa fiamma della regina Loana”, e la descrizione della paradisiaca soffitta di quella grande casa tra Langhe e Monferrato, in cui l’io narrante s’immerge nella caccia ai tesori dimenticati, libri e quaderni, giornali e periodici, diari e scartafacci, per ritrovare il suo tempo perduto. Sono di questo genere i doni della pandemia. A volte, il male viene addirittura per giovare. Forse ne usciremo fortificati: magari anche nello spirito. Chissà che non ci ritroveremo immunizzati: dalla noncuranza, dalla negligenza, dalla superficialità.
Leggere, dunque. E magari leggere tutti insieme, leggere a voce alta come facevano gli antichi (Agostino, giunto a Milano e recatosi pieno di devozione a visitare il vescovo Ambrogio, si meravigliò trovandolo immerso in una muta lettura mentale: una rivoluzione, ai suoi tempi…); o ascoltare – in questa civiltà che ha perduto il dono di gustare l’ascolto – qualcuno che legge.
Il potere terapeutico della lettura, come quello del racconto orale, i nostri vecchi lo conoscevano bene; e molti medici oggi lo sostengono con convinzione. Raccontare a un bambino una fiaba anziché parcheggiarlo dinanzi alla TV, e riuscire a fare in modo che alzi gli occhi dal piccolo schermo o abbandoni la sua playstation per ascoltare una storia e “vederla” con gli occhi della fantasia, provoca oggi una sensazione portentosa in chi riesce a guadagnarsela. Può davvero, il leggere e il sentir leggere, guarire dall’ansia, dall’inquietudine, dalla paura, far sentire più forti e più liberi? Quando leggo le parole degli antichi e quasi ne sento la voce – diceva il vecchio Machiavelli – «non mi sbigottisce la morte».
Oggi possiamo provarla di nuovo, una sensazione del genere, e collaudare la forza del racconto letterario e storico, rivisitando un capolavoro del nostro Trecento italiano ch’è senza dubbio una delle più grandi opere mai scritte al mondo: il “Decameron” di Giovanni Boccaccio. Peccato che oggi sia sempre meno la gente disposta a leggere i classici. Peccato che, secondo il parere di troppi, certe esperienze debbano circoscriversi ai banchi di scuola e siano inutili per la vita.
Circa sei secoli e mezzo fa un non più giovanissimo studioso, intellettuale e personaggio pubblico fiorentino – aveva circa quarant’anni: ma a quel tempo non erano pochi – piuttosto malfermo in salute e minacciato da quella che noi chiamiamo “depressione”, scrisse presumibilmente nel giro di cinque anni o poco più, un grosso romanzo, che purtroppo la stragrande maggioranza di chi lo conosce o dice o crede di conoscerlo, considera una raccolta miscellanea di cento novelle e omette di leggerla, magari saltandola a piè pari, quella che non solo è la parte fondamentale, ma che per certi versi è, nel suo complesso, perfino l’elemento più bello e certo il più significativo del “Decameron”: la “cornice”, che alla sequenza delle novelle e alle dieci giornate nelle quali esse sono scandite conferisce un senso preciso. Là, in quelle disquisizioni che possono sembrare scolasticamente prolisse e in quelle descrizioni che possono sembrare goticamente ridondanti, si nascondono invece non solo (e a chiare note!) il presagio dell’ormai prossima cultura umanistica, ma anche il senso e la chiave di lettura di tutta l’opera, che risiede per intero nella vicenda catartica della bella compagnia dei tre giovani e delle sette dame e donzelle, nel loro insieme e in quella di ciascuno di loro, attraverso l’originale, irripetibile percorso delle dieci novelle che ciascuno di loro narra in altrettanti giorni. E saranno dieci giorni al termine dei quali gli altrettanti protagonisti si troveranno, ciascuno a suo modo, «puri, e disposti a salire alle stelle»: stelle terrene tuttavia, per quanto illuminate dalla fede e dalla ragione; il futuro di una vita rinnovata che li aspetta, da percorrere con sicura e serena fiducia. Perché gli autentici protagonisti dell’opera non sono né Masetto da Lamporecchio, né Andreuccio da Perugia, né Bruno e Buffalmacco, e neppure il nobilissimo Saladino, e neanche la sublime Griselda: bensì, appunto, Pampinea, e Fiammetta, e Dioneo, e Neifile, e le altre e gli altri.
Personaggi scaturiti dalla fantasia del Boccaccio, senza dubbio: ma che hanno guardato nella loro Firenze, per alcuni giorni, la Morte Nera negli occhi, ne hanno avvertito il frusciare del mantello, del suo mantello color della notte alle loro spalle, ne hanno còlto il fiato gelido sulla loro nuca. E sanno di dovere uscire dall’angoscia che tutto ciò ha loro provocata, così come lo sa il loro creatore, che ha intravisto al pari di loro la Signora del mondo camminargli accanto.
Perché di ciò anche noi, in questi giorni, sia pure in modo infinitamente meno drammatico, siamo stati testimoni: restando chiusi nelle nostre case, come gli ebrei compagni e seguaci di Mosè nella notte tremenda del Passaggio dell’Angelo che rapisce tutti i primogeniti d’Egitto e passa oltre gli stipiti segnati dal sangue dell’agnello sacrificale. Leggere di un pericolo, di uno spavento, di una tragedia, può essere un’esperienza sconvolgente; vederla ritratta in affreschi, in quadri, in fotografie, o doverla rivivere attraverso il cinema o la televisione, può essere terribile: ma viverla di persona, sentirsela addosso e dentro fin sotto la pelle e le ossa, è ancora peggio. Eppure sono esperienze che maturano, che fanno crescere, che aiutano a comprendere tante cose. Ed è quanto, sia pure in una misura minimale o comunque leggera, sta accadendo a noi.
Ecco perché, come sentiamo in infiniti racconti in TV o alla radio, molti tornano a frugare, dopo chissà quanto tempo, nella loro magari modesta biblioteca di casa, dove tuttavia abbastanza spesso hanno rintracciato una copia del “Decameron” e dei “Promessi Sposi”. E attraverso messer Giovanni Boccaccio che vide la peste fiorentina del 1348-’50 e forse (non lo sappiamo, né lui ce lo dice) ne fu toccato, e attraverso Alessandro Manzoni che la peste milanese del 1630 si limitò a studiarla sulle carte ma che epidemie, tra vaiolo e colera, ne conobbe altre, abbiamo anche noi collezionato la nostra porzione di paure, il nostro sacchetto di emozioni. Nihil sub sole novi, in fondo: prima avvisaglie lontane, alle quali nessuno crede; poi i rumori di qualcosa che si avvicina, come il suono d’una mareggiata o il frastuono d’un bosco sferzato dalla pioggia; e le mille ipotesi, le supposizioni più folli, la ricerca maniacale d’un capro espiatorio al quale dare la colpa di tutto e su cui sfogarsi; e le tante storie che s’incrociano sul male implacabile e sulla scienza impotente; e infine l’orrore, che magari non si vede ma che ci viene narrato e s’ingigantisce nei racconti che ci assalgono, e la paura che ti consiglia di sfuggire all’abbraccio degli amici e perfino degli affetti più prossimi, e l’ansia con la quale scruti il tuo corpo alla ricerca dei segni del male, e il contagio che visita le case dei poveri come i palazzi del potere, e le strade deserte, e le chiese sbarrate…
Sarà interessante, sarà dolce, sarà perfino divertente ricordarsene, quando tutto sarà definitivamente passato da un tempo sufficiente a far agire quella saggia legge naturale che ci fa sempre ricordare le cose buone e piacevoli, mentre la memoria di quelle tristi e dolorose col tempo si attenua e scompare… Poi, come accadde nell’Atene del tempo di Pericle, nella Roma degli Antonini, nella Costantinopoli di Giustiniano, nella Firenze di Messer Boccaccio, nella Milano di Renzo e Lucia, dopo il pericolo e la paura torna la gioia e la voglia di vivere, e le energie dilagano decuplicate, e si lavora a riempire i vuoti lasciati dalla tragedia, e le società si risvegliano e rifioriscono. Perché anche questo c’insegna Magistra Pestis. D’altronde, il ricorso è sempre qualcosa di doveroso e di prezioso al tempo stesso. Ricordare? Ma l’uomo – diceva Lucien Febvre – non ricorda mai nulla: ricostruisce sempre. O magari “reinventa”, nel senso che i latini attribuivano al termine inventio.
Questo libretto, “Le cento novelle contro la morte” (Salerno editrice), se ne avrete il tempo e la voglia, vi aiuterà a capire quel che stiamo attraversando e a ricordare quel che infinite generazioni hanno attraversato prima di noi: e a trarne utili frutti di riflessione per il futuro. La storia non si ripete mai, eppure il suo procedere – elicoidale, si direbbe – ci ripropone di continuo situazioni e casi mai identici a se stessi, eppure simili, del passato, per poi fermarsi su un momento, esemplare in quanto illuminato da un capolavoro che ci aiuta a comprenderlo e a comprendere meglio noi stessi.