Franco Bruni
Era il 5 agosto del 2011, era firmata dall’allora presidente della Bce e dal governatore della Banca d’Italia, e indirizzata all’allora primo ministro, Silvio Berlusconi. Indicava una serie di riforme strutturali che servivano per ottenere in cambio l’acquisto dei titoli di stato. Ma le misure richieste allora dai banchieri centrali erano davvero la cosa migliore per l’Italia?
Era firmata da Jean Claude Trichet, allora presidente della Bce, e da Mario Draghi, allora governatore della Banca d’Italia, designato a succedere a Trichet. Era indirizzata al “caro primo ministro”, allora Silvio Berlusconi. È successo dieci anni fa, esattamente il 5 agosto 2011: la famosa lettera dettava molti provvedimenti, in materia di politiche di bilancio e del lavoro, riforme strutturali, procedure parlamentari e, addirittura, riforme costituzionali, che l’Italia avrebbe dovuto adottare «con urgenza» al fine di «ristabilire la fiducia degli investitori».
Analoghe missive erano state indirizzate in quel periodo di grave instabilità dell’area dell’euro, ad altri paesi in difficoltà, fra cui la Spagna. Destinata a rimanere riservata, se ne sussurrò per qualche settimana fino a quando il Corriere della Sera la pubblicò, il 29 settembre. Nel suo decennale possiamo chiederci se fu opportuno inviarla e se le sue prescrizioni erano giuste.
Inopportunità istituzionale?
Si trattava di un atto estraneo alle regole di comportamento delle banche centrali, vincolate a rimanere nell’ambito di politiche monetarie e creditizie, al di fuori del quale si limitano di solito a consigli generali e, nel caso della Bce, rivolti all’insieme dell’area dell’euro. Era inoltre spontaneo pensare che la lettera contenesse un’ipocrisia: non si trattava di semplici suggerimenti per «ristabilire la fiducia degli investitori» ma di condizioni perché la Bce acquistasse i titoli di stato italiani (e spagnoli) estendendo il supporto che fin dal maggio 2010 aveva assicurato ai debiti pubblici di Grecia, Irlanda e Portogallo. A loro volta era difficile non considerare questi acquisti, presentati come modi per «migliorare la trasmissione della politica monetaria», come veri e propri aiuti a governi prossimi al fallimento.
La Bce stava dunque sostituendosi alla Commissione e al Consiglio europeo, cioè all’azione unitaria dei governi dell’Unione, nel concedere solidarietà finanziaria ai paesi membri in difficoltà, condizionandola con prescrizioni di politica economica estranee alla sua autorità. Venne spontaneo per molti di noi un giudizio di grave inopportunità istituzionale. Che però non può disgiungersi da importanti attenuanti. C’era un’enorme urgenza: la sfiducia dei mercati nella sostenibilità dei debiti di diversi paesi dell’area dell’euro, iniziata nel 2010, cresceva continuamente e tendeva a diventare sfiducia nella stessa sopravvivenza dell’euro. Si cominciava ad avvertire il pericolo di speculazioni autorealizzantesi sul ritorno alle monete nazionali. L’Italia, tenendo conto delle sue dimensioni, della dipendenza delle sue banche dall’interbancario internazionale e del fatto che circa la metà del suo debito pubblico era detenuto all’estero, era considerata una mina che poteva fare esplodere l’eurozona. Lo spread fra i rendimenti dei titoli pubblici decennali italiani e tedeschi superava i 370 punti, ed era più che triplicato fra l’1 aprile e l’1 agosto. Era cresciuto di 76 punti anche in Spagna, ma nei confronti dell’Italia aveva cambiato segno, passando da 73 punti a nostro favore a -97.
I governi nell’Unione non trovavano un accordo su come intervenire con strumenti appropriati di solidarietà fiscale comunitaria. Con diversi paesi membri in grave crisi finanziaria e produttiva si insisteva nel prescrivere politiche restrittive pro-cicliche, cioè restrittive in fase di bassa crescita, inseverendo anche il patto di stabilità. Il progetto di rafforzare il fondo salva-stati allora esistente, fino a farlo diventare un robusto meccanismo europeo di stabilità, avanzava lentamente e subiva continui rinvii e indebolimenti. I disaccordi fra i paesi finivano per creare tensioni anche nel consiglio direttivo della Bce. Dalla Germania, in particolare, giungevano miopi impuntature rigoriste. La Bce si sentiva sola nell’affrontare con realismo una situazione che minacciava l’unità monetaria, la base stessa della sua esistenza. Trichet avrebbe poi detto: «da tempo ammonisco i governi», i quali «mi hanno criticato dicendo che la situazione non era così grave». L’incompletezza dell’Europa economica chiedeva una supplenza impropria all’Europa monetaria. Mancava il consenso sull’urgenza di risolvere almeno in parte la contraddizione fra l’unificazione monetaria e la decentralizzazione delle finanze pubbliche.
L’accordo mancava anche del tutto nella situazione politica italiana, dove il debito pubblico raggiungeva il 120 per cento del Pil, il deficit era attorno al 4 per cento e il governo continuava a cambiare progetti di aggiustamento di bilancio che erano vaghi e rinviavano agli anni futuri i provvedimenti più incisivi. L’opposizione era furente contro una maggioranza che agonizzava e c’era evidente ostilità persino fra il premier e il suo ministro dell’economia, Giulio Tremonti, il quale anziché l’aiuto europeo voleva chiedessimo quello del Fmi. In tale situazione come potevano i firmatari sperare che la loro lettera generasse prontamente le politiche giuste?
La reazione del governo italiano
L’accoglienza di Berlusconi fu formalmente positiva, al punto da far sospettare che fosse stato proprio lui a farsela mandare come «ultimo tentativo di rendere accettabile ai mercati un esecutivo screditato» (come scriveva Stefano Feltri sul Fatto Quotidiano del 12 maggio 2012). Dopo solo due giorni, Trichet prese atto ufficialmente del primo di una serie convulsa di annunci di “manovre” che il governo italiano cominciò a fare per mostrare obbedienza. Non erano manovre credibili e collocavano negli anni a venire i provvedimenti decisivi. Ma con la sola garanzia di quegli annunci la Bce avviò effettivamente gli acquisti dei nostri titoli di stato, che ammontarono a 100 miliardi fino a gennaio 2012, quando furono sospesi. Ciononostante lo spread continuava a salire, puntando ad oltre i 500 punti. Il 26 ottobre, un mese dopo la pubblicazione della lettera, fu Berlusconi a inviare una lunga missiva all’Unione europea con un amplissimo programma di misure che il Consiglio accolse con favore anche se invitando l’Italia a «fornire tempestivamente tutte le informazioni necessarie per valutarle». Dalla riforma delle pensioni a quella delle «regole per licenziare per motivi economici i lavoratori a tempo indeterminato», a quella «del turnover del pubblico impiego, se necessario riducendo gli stipendi», e tanto altro, quello che De Gaulle avrebbe chiamato “vasto programma” rispondeva alle richieste della lettera dei banchieri centrali (le raccomandazioni della Commissione erano state molto meno drastiche) ma era molto “futuro”, disordinato e, soprattutto, senza consenso nel paese e nella stessa maggioranza. Nella ricostruzione di Carlo Bastasin (in Saving Europe) al Consiglio direttivo della Bce fu addirittura proposto di mandare una seconda lettera per sottolineare l’inadempienza delle richieste. Sappiamo come finì e come il governo fu poi affidato a Mario Monti, proprio a chi fin dal 7 agosto aveva definito i provvedimenti promessi con improvvisa urgenza dal governo «una precipitosa soluzione eterodiretta».
Erano giuste le misure richieste?
Ma erano giuste le misure richieste dalla lettera dei banchieri centrali? Quella di anticipare dal 2014 al 2013 il pareggio di bilancio, cui le manovre teoriche del governo si vantarono di subito obbedire, faceva parte di quegli aggiustamenti pro-ciclici raccomandati dalle autorità europee che nocquero a mezza Europa e prolungarono la crisi dell’euro-area. Monti la disapprovò ma dovette adeguarsi all’anticipo promesso dal governo di centro-destra e su di lui per anni conversero le accuse di austerità. L’elenco dei provvedimenti richiesti pretendeva di aggiustare di colpo un deterioramento economico-politico che durava da decenni ed era tale che neanche un governo più in sella dell’ultimo Berlusconi avrebbe potuto varare organicamente entro la scadenza. Scadenza dettata con tono stranamente imperioso da chi non aveva autorità per farlo: «cruciale che siano prese per decreto legge entro la fine di settembre».
Molti dei provvedimenti richiesti dalla lettera andavano giustamente al cuore del problema della scarsa produttività e degli squilibri finanziari dell’economia italiana: provvedimenti per aumentare la concorrenza, liberalizzazione dei servizi pubblici e professionali, riforme del mercato del lavoro, compresa la decentralizzazione delle contrattazioni, riforma delle pensioni e della pubblica amministrazione, revisioni della spesa pubblica, limiti all’indebitamento delle autorità locali, clausole automatiche di taglio di spese pubbliche quando il deficit va oltre l’obiettivo. I governi successivi hanno fatto sforzi rilevanti in queste direzioni, dalla riforma Fornero al Jobs Act, alle varie “spending review”, alle politiche attive del lavoro associate al reddito di solidarietà. In qualche caso le riforme hanno avuto successo, in altri sono abortite, a volte sono state contrastate da provvedimenti successivi, altre volte sono state applicate alla rovescia, come le clausole di garanzia del deficit che aumentano l’Iva invece di tagliare le spese. L’eccesso di restrizioni di bilancio pro-cicliche è durato fino al 2015, quando i vincoli di bilancio europei sono stati gradualmente allentati e i deficit agevolati dall’assorbimento di titoli del quantitative easing della Bce. Dal 2017 il tono delle politiche di bilancio dell’euro-area nel suo insieme è classificato dall’European Fiscal Council come pro-ciclico all’incontrario, cioè espansivo nonostante una crescita soddisfacente.
Dopodiché è arrivata la crisi pandemica. La quale da un lato ha stimolato un nuovo senso complessivo dei programmi di riforme strutturali, alla ricerca non solo di una crescita quantitativamente maggiore ma anche qualitativamente diversa. È augurabile che ciò faciliti il consenso per una loro puntuale attuazione. Dall’altro la pandemia ha sospeso del tutto i limiti di indebitamento e ha vinto alcune delle resistenze a impostare politiche di bilancio comunitarie non prive di solidarietà per i paesi più deboli. Uno dei due firmatari della lettera, quale premier italiano, può oggi cercare di riformare a fondo senza dover contemporaneamente tagliare i deficit, come prescriveva la lettera e come gli scorsi governi hanno dovuto tentar di fare.