Abbandono di minori con l’inganno quando non si arriva direttamente al tentativo di assassinio. Gran numero di morti atroci, in giovane età, per malattie o addirittura di parto. Solitudini e ostacoli sovrumani di fronte a sé. Sono le ricette aspre che impastano la maggior parte delle fiabe e leggende, le stesse che hanno costellato le infanzie del mondo. A volte, poi, i personaggi generosi e buoni (anche se vincenti alla fine del racconto) sfoggiano personalità sbiadite, facendoci propendere per i «cattivi». «Le fiabe – sostiene Maria Tatar, studiosa di folklore, miti e letteratura tedesca – ci incantano soprattutto perché sembra che prendano sempre la strada sbagliata».
Docente all’università di Harvard, Tatar ha curato il libro appena uscito per la casa editrice Donzelli La più bella del reame. Biancaneve e altre 21 storie di madri e figlie (pp. 288, euro 30, tavole illustrate di Cinzia Ghigliano, traduzione di Bianca Lazzaro). È una raccolta di molte varianti fiabesche – dal Portogallo con le letali calze fatate al posto della mela avvelenata fino al Giappone dove l’eroina risponde al nome di Matsuyama – che dimostra come quella narrazione sia un patchwork di motivi, universali e che attraversano diverse culture, in continua evoluzione.
Un tempo, le storie tramandate oralmente erano destinate a un pubblico adulto o misto. Può spiegarci perché le fiabe sono diventate un patrimonio dell’età infantile, nonostante la crudeltà sia così presente nelle varie trame?
Le fiabe facevano parte di una tradizione di narrazione orale, erano raccontate per ravvivare le faccende domestiche e ingannare la loro ripetitività nelle ore serali. Feroci, melodrammatiche e piene di avventure, hanno intrattenuto intere generazioni, illuminando le loro menti e alleggerendo i compiti casalinghi. Dal Seicento in poi furono trascritte e, gradualmente, quei racconti del patrimonio popolare entrarono a far parte della cultura letteraria dell’infanzia. Gli adulti, invece, si sono rivolti agli «ingredienti» letterari più sofisticati che si trovano nei romanzi per il loro divertimento e per le storie edificanti. Nel XVII, XVIII e XIX secolo, alcuni ricercatori hanno raccolto e riadattato le fiabe per i bambini, aggiungendo loro una dimensione morale, con lezioni sui pericoli insiti nella disobbedienza, curiosità o deviazione dalla retta via. Sebbene abbiano rimosso molti degli episodi più crudi e le allusioni alla sfera sessuale, hanno mantenuto la violenza come parte dell’insegnamento etico, con la virtù premiata e il vizio punito in modo esplicito.
Dalla Germania all’Armenia – basti pensare a Biancaneve, Cenerentola ma anche a Nourie – nelle fiabe il conflitto tra figlia e madre, biologica o acquisita, è profondo. E funge da perno della narrazione. Cosa può dirci al riguardo?
Le fiabe girano tutte intorno alla famiglia, spesso si tratta di una famiglia iper-disfunzionale, più allargata di quella della vita vera e doppiamente innaturale. Oggi il conflitto madre-figlia, alimentato dal successo globale del «modello Disney» e dalla fissazione su quella particolare rivalità, è al centro della scena. Come vengono gestiti i dissapori generazionali che ruotano su una serie di questioni che vanno dalla bellezza all’invecchiamento fino all’empatia e alla giustizia? Usiamo quella particolare storia per risolvere conflitti etici, dimenticando un repertorio più antico che invece affrontava apertamente le contrapposizioni padre-figlio, padre-figlia e madre-figlio. La cultura popolare ha creato il mito del potere femminile e ha investito le figure materne di vaste riserve di crudeltà e gelosia. Penso qui a Ursula nella Sirenetta disneyana o alla Strega malvagia dell’ovest de Il meraviglioso mago di Oz, ma se ne potrebbero citare molte altre.
Nel suo libro, lei sceglie «Biancaneve» come archetipo della rivalità tra due donne di età e bellezza diverse, appartenenti alla stessa famiglia. Eppure, almeno nella versione che lei giudica ormai dominante della fiaba – il film Disney – la Regina ha un fascino che colpisce l’immaginazione più dell’innocente fanciulla. Quali sono le ragioni di questa attrazione per l’antagonista?
Le potenti figure femminili delle fiabe, nonostante la loro brutalità (o forse proprio per questo), hanno sempre catturato la nostra attenzione. Il loro carisma contrasta con l’innocenza, a volte inconsistente, della generazione più giovane. Con voci roche, costumi glamour e una presenza fisica imponente, diventano seducenti motori della trama, ricordandoci le sfide della sopravvivenza in un mondo in cui la doppiezza fa parte della condizione umana. Come si fa a superare in astuzia il male nella sua forma umana più spaventosa, una donna/madre che è diventata predatrice anziché figura che protegge?
La caducità della vita – la paura dell’invecchiamento e della morte – attraversa molti racconti. Come può questo tema della crisi rappresentare un «romanzo di formazione» per bambine e bambini?
Offriamo rifugio ai più giovani dalle asperità della vita e lo facciamo per una buona ragione. Ma il nostro istinto protettivo può anche non funzionare quando cerchiamo di far evaporare, sussurrandoli in segreto, il dolore, perdita e morte. Le fiabe forniscono uno spazio sicuro – quel «c’era una volta» – e presentano un mondo codificato simbolicamente per affrontare questioni primordiali. I fratelli Grimm consideravano la loro raccolta di fiabe un manuale di buone maniere per i più piccoli, ma non riuscivano a comprendere del tutto come si trasformassero in utili strumenti per rendere visibili rivalità, passione, rabbia, gelosia, avidità e perdita. Con il loro lieto fine, però, quelle storie possono anche donare ai bambini la speranza di un cambiamento, di una trasformazione, di un mondo migliore.
Le fiabe ci avvertono che le azioni orrende accadono sempre tra le mura di casa. Sono dunque un buon antidoto alla retorica della famiglia da spot pubblicitario?
Ci piace immaginare il nucleo della famiglia come un territorio sicuro, privo di tensioni. Eppure i titoli dei quotidiani e i nostri telegiornali ci ricordano che la violenza domestica è una dura realtà, un fatto della vita. Le fiabe offrono l’opportunità di riconoscere e affrontare, anche nominandole, le ostilità e i conflitti connaturati al contesto familiare. Ci offrono qualcosa di cui discutere e le «analisi» inevitabilmente si spostano dalla storia simbolica alle realtà del mondo che abitiamo. In passato, trasmettevano saggezza e capacità di sopravvivenza, erano bussole per orientarsi navigando fra le burrasche dell’esistenza. Oggi bambine e bambini ascoltano le fiabe e apprendono cose che normalmente vengono loro tenute nascoste. Viene così consegnato loro un linguaggio per elaborare ciò che sperimentano nella vita reale.
Bianco, nero e rosso: sono i colori della fiaba. Perché proprio questa tavolozza?
Rosso, bianco e nero sono i colori primari della magia delle fiabe, necessari per creare l’oro massiccio. Proprio come le fiabe contengono un intero universo di elementi – terra, acqua, aria – i forti contrasti forniti da queste tre tonalità determinano una ricchezza di associazioni culturali, catturate nell’invocazione materna di rosso, bianco e nero nelle storie che contemplano belle ragazze e loro genitrici. Il colore è essenziale per l’immaginazione creativa e il suo riverberarsi crea uno spazio estetico sicuro per dare libero sfogo alla fantasia, consentendo una produzione di immagini suggerita dallo stile coerente delle narrazioni fiabesche.
Può dirci qualcosa in più su Walter Benjamin «collezionista di libri per bambini». Cosa ci vedeva il filosofo?
Walter Benjamin riconobbe che i libri e le storie illustrate offrivano ai bambini un’esperienza immersiva. Parole e immagini invitavano il lettore – o ascoltatore – a entrare in un mondo più colorato, espansivo e liberatorio rispetto a quello reale. Per tutta la durata della fiaba, il bambino può vagare a proprio piacimento in un universo caratterizzato da una vibrante bellezza estetica, dove l’opportunità di esercitare il potere dell’immaginazione non è mai ostacolata. Benjamin ci ha saggiamente consigliato di invertire i campi pedagogici quando leggiamo con i bambini, permettendo loro di insegnarci le meraviglie liberatrici del gioco immaginativo.