Francesca Sforza
C’è violenza e sopraffazione, nella parola democrazia. E non perché Joe Biden l’abbia utilizzata – in opposizione ad autocrazia – per sferrare un colpo a Russia e Cina mettendole all’angolo della politica internazionale. È piuttosto una violenza originaria, «perché democrazia è parola di lotta e di battaglia», ci dice Luciano Canfora, storico, filologo e profondo conoscitore del mondo antico.
Professor Canfora, partiamo dall’inizio e vediamo quanto ci siamo allontanati: cosa intendevano i greci per democrazia?
«La parola democratia è composta dalle parole demos, popolo, e cratia, potere, ma se guardiamo cosa scriveva Aristotele, alla fine del libro III e all’inizio del IV della Politica, “democrazia vuol dire governo dei poveri, dei non possidenti, anche se sono una minoranza numerica”. Ad esempio, continuava Aristotele, “se immaginiamo una città di 1300 cittadini, in cui 300 poveri governano e hanno il potere in mano, quella è una democrazia, se invece governassero i 1.000 ricchi, sarebbe un’oligarchia”. Quindi la collocazione dei due modelli opposti non è democrazia-autocrazia – termine tardo, successivo – ma democrazia-oligarchia».
Le elezioni, procedura per eccellenza della vita democratica, erano dunque contrassegnate dal sopruso?
«Cominciamo col dire che la nostra idea più o meno ammaccata delle procedure elettive non c’entra niente con la realtà antica. Ad Atene c’erano circa 30 mila cittadini a pieno titolo, e all’assemblea che decideva il governo della città ce ne andavano al massimo 5 mila, in pratica una minoranza politicizzata formata da non possidenti che aveva la facoltà di comandare. Questo era la democrazia antica. Se un oligarca osava mettere in discussione il sistema veniva ucciso, o esiliato e i suoi beni confiscati. Uno storico tedesco come Arthur Rosenberg, nel 1920, definì il modello ateniese come “dittatura del proletariato”».
Neanche i romani la amavano molto…
«In latino la parola democrazia non esiste. È una parola greca che il pensiero politico romano disprezza, considerandola alla stregua di una follia. I romani si ritenevano il luogo della libertas. Libertà e democrazia erano per loro agli antipodi. Ancora nella lingua italiana del trecento maggioranza significava sopraffazione».
Nel dibattito contemporaneo le cose sono molto diverse, come mai secondo lei?
«La realtà è che quando parliamo di democrazia non sappiamo di cosa parliamo. È una parola usata come la clava di Eracle, che si scaraventa addosso all’interlocutore per intimidirlo. Basti pensare che un altro grande momento di democrazia è stato la Prima Repubblica francese, tra il 1792 e il 1793: il conflitto sociale era talmente forte che una parte della Convenzione fece arrestare e mettere in galera l’altra metà».
Il presidente americano Biden ne ha fatto una questione valoriale: la democrazia è il luogo dei diritti e delle libertà. Che ne pensa?
«Nell’Oxford Dictionary, il più grande vocabolario di lingua inglese, fino agli inizi del Novecento, la spiegazione del termine del termine democracy era social revolution, rivoluzione sociale. Perché la parola democrazia è malvista dalla tradizione liberale. L’accezione del presidente Biden è invece ereditata dalla Guerra Fredda, quando con democrazia si è passato a intendere un sistema parlamentare rappresentativo (con diverse eccezioni, perché ad esempio Erdogan è stato eletto, ma non mi sembra sia considerato campione di democrazia)».
Anche il sistema rappresentativo non può definirsi democratico?
«La democrazia è una parola di battaglia, di lotta, sia per chi la apprezza sia per chi la detesta. Quanto al sistema rappresentativo, un padre della democrazia moderna come Rousseau lo ha definito un inganno: “Il popolo inglese va a votare e il giorno dopo ridiventa schiavo perché ha delegato ad altri la sovranità attraverso il meccanismo elettorale”. Persino un pensatore che ha avuto un peso fondamentale nella storia della democrazia moderna aveva forti riserve rispetto al sistema rappresentativo».
La democrazia si può esportare?
«Quando la città simbolo dell’oligarchia nell’antica Grecia, Sparta, dichiarò guerra ad Atene nel 431 a.C. la sua parola d’ordine era “esportare la libertà”. E distrusse Atene. Quando Napoleone dominava l’Europa la Francia rivoluzionaria diceva di portare la libertà nei Paesi che stava invadendo. Trovo che si faccia un uso confuso e contraddittorio di parole importanti, parole che col tempo hanno assunto un significato strumentale funzionando in un’altra accezione. Come i romani quando dicevano bellum iustum, la guerra è giusta. Non è vero, le guerre non sono giuste, ma siccome i romani avevano la forza di imporre questa lettura, ecco che le guerre dei romani diventavano giuste».
Poi però ci sono i diritti, le libertà. Come quelle che Joe Biden ha promesso ai giornalisti che lavorano in Paesi in cui vige la censura, offrendo loro dei fondi per tutelarli.
«Di nuovo mi torna in mente la Guerra Fredda, quando gli Stati Uniti pagavano giornali e giornalisti perché facessero un’informazione conforme ai loro propositi. Che poi è la stessa cosa che facevano gli zar: quando si aprirono gli archivi riservati, dopo il crollo dell’impero, venne fuori una lista impressionante di giornalisti inglesi e francesi pagati perché orientassero l’opinione pubblica alle esigenze russe».
Nel dibattito contemporaneo le cose sono molto diverse, come mai secondo lei?
«La realtà è che quando parliamo di democrazia non sappiamo di cosa parliamo. È una parola usata come la clava di Eracle, che si scaraventa addosso all’interlocutore per intimidirlo. Basti pensare che un altro grande momento di democrazia è stato la Prima Repubblica francese, tra il 1792 e il 1793: il conflitto sociale era talmente forte che una parte della Convenzione fece arrestare e mettere in galera l’altra metà».
Il presidente americano Biden ne ha fatto una questione valoriale: la democrazia è il luogo dei diritti e delle libertà. Che ne pensa?
«Nell’Oxford Dictionary, il più grande vocabolario di lingua inglese, fino agli inizi del Novecento, la spiegazione del termine del termine democracy era social revolution, rivoluzione sociale. Perché la parola democrazia è malvista dalla tradizione liberale. L’accezione del presidente Biden è invece ereditata dalla Guerra Fredda, quando con democrazia si è passato a intendere un sistema parlamentare rappresentativo (con diverse eccezioni, perché ad esempio Erdogan è stato eletto, ma non mi sembra sia considerato campione di democrazia)».
Anche il sistema rappresentativo non può definirsi democratico?
«La democrazia è una parola di battaglia, di lotta, sia per chi la apprezza sia per chi la detesta. Quanto al sistema rappresentativo, un padre della democrazia moderna come Rousseau lo ha definito un inganno: “Il popolo inglese va a votare e il giorno dopo ridiventa schiavo perché ha delegato ad altri la sovranità attraverso il meccanismo elettorale”. Persino un pensatore che ha avuto un peso fondamentale nella storia della democrazia moderna aveva forti riserve rispetto al sistema rappresentativo».
La democrazia si può esportare?
«Quando la città simbolo dell’oligarchia nell’antica Grecia, Sparta, dichiarò guerra ad Atene nel 431 a.C. la sua parola d’ordine era “esportare la libertà”. E distrusse Atene. Quando Napoleone dominava l’Europa la Francia rivoluzionaria diceva di portare la libertà nei Paesi che stava invadendo. Trovo che si faccia un uso confuso e contraddittorio di parole importanti, parole che col tempo hanno assunto un significato strumentale funzionando in un’altra accezione. Come i romani quando dicevano bellum iustum, la guerra è giusta. Non è vero, le guerre non sono giuste, ma siccome i romani avevano la forza di imporre questa lettura, ecco che le guerre dei romani diventavano giuste».
Poi però ci sono i diritti, le libertà. Come quelle che Joe Biden ha promesso ai giornalisti che lavorano in Paesi in cui vige la censura, offrendo loro dei fondi per tutelarli.
«Di nuovo mi torna in mente la Guerra Fredda, quando gli Stati Uniti pagavano giornali e giornalisti perché facessero un’informazione conforme ai loro propositi. Che poi è la stessa cosa che facevano gli zar: quando si aprirono gli archivi riservati, dopo il crollo dell’impero, venne fuori una lista impressionante di giornalisti inglesi e francesi pagati perché orientassero l’opinione pubblica alle esigenze russe».