Un altro, se si vuole, filtrava dai nomi dei grandi esclusi, nolenti o respinti che fossero: Albano, Tremonti, il “Viperetta” Ferrero, Elisabetta Gregoraci, Di Pietro, Toto Cotugno. La formazione delle liste ha pure crudelmente sacrificato il senatore Razzi: “Nessuno mi ha detto niente, ci vorrebbe un po’ di educazione, ho lavorato tanto per il bene degli italiani”. In Sicilia, alla riunione finale sulle candidature un dirigente del Pd si è presentato con una clava giocattolo. Mentre al Nazareno, dopo la notte delle scelte, l’onorevole Guerini ha dovuto negare che il ministro Orlando avesse cercato di entrare a spallate nella sua stanza (qualche metro più in là, Renzi non corre di questi pericoli disponendo di una porta blindata con videocitofono).
Per cui davvero, e ancora una volta in linea con i due generi nazionali della commedia e del melodramma, c’è stato da ridere e al tempo stesso da avvilirsi, da soffocare le risa e insieme da preoccuparsi dinanzi agli occhi lucidi di Giorgia Meloni richiamata a sorpresa ai suoi doveri di mamma, ché la piccola Ginevra non la vedeva più tanto, come pure di fronte alla solenne motivazione con cui l’aspirante premier Di Maio, col suo «bel musino da tv» (secondo Berlusconi), ha investito la criminologa Giannetakis nientemeno che alla guida del ministero dell’Interno: «Perché ha un carattere tosto».
A un certo punto da più parti si è sollevato un caso Orietta Berti, ma sul serio, nel senso che in qualche trasmissione la cantante aveva espresso le sue preferenze per i cinque stelle, pure soffermandosi sull’abbronzatura del loro leader («sembra un mulatto»); e Berlusconi ha dato l’allarme su un incontro tra Grillo e il giudice Davigo, in quel caso anche sceneggiando la doppia e rinforzata stretta di mano fra i due; e Salvini, nel nome di Dio invano, ha cacciato di tasca il rosario e siccome non bastava ha pure giurato sul Vangelo; mentre per mettere fine all’angosciosa diatriba sulla titolarità della gloriosa Margherita, la ministra Lorenzin s’è prodotta in una perifrasi di una canzone di Sergio Endrigo su semi e alberi per concludere che il simbolo che aveva alle spalle, fino a poco prima coperto sotto un velo, era un fiore «petaloso e giallo come il sole» – e tra smorfiette e sorrisini sembrava un saggio di prima media.
Ora, a smontarli e a rimontarli a freddo, i dispositivi degli spettacoli, specie quelli politici per cui non si paga il biglietto, paiono perfino rassicuranti. Uno pensa, con un sospiro: che s’ha da fa’ per acchiappare voti, e passa ad altro. Ma stavolta l’espediente dell’interpretazione drammaturgica zoppicava, ansimava, sbandava come sotto un peso maggiore. Gli «italiani rincoglioniti» (Dibba), la «razza bianca» (Fontana), il fantoccio di Boldrini bruciato in piazza, il maiale dei Casamonica postato dai Fratelli d’Italia, l’ipotetica lesbica dei cartoni animati, il cane sul podio di Brambilla, ecco che nel gran caos di vero circo e cimitero virtuale, chiacchiere e strilli, scemenze e cose pericolose, beh, mai come stavolta il paesaggio elettorale ha proiettato all’orizzonte la grande regressione del potere, il compiuto disfacimento di ogni residua cultura politica, la scorciatoia verso l’insignificanza.
È troppo? E sarà anche eccessivo, ma se l’archeologia è davvero una via d’accesso al presente, la crisi del discorso pubblico è cominciata nei primissimi anni 90, e cinque lustri sembrano aver consumato non solo l’attenzione, ma anche il buonsenso.
Grillo ha pubblicato un video in cui parla con una statua (Rousseau); l’altro giorno il generale Pappalardo voleva arrestare la presidente della Camera; e dopo aver disposto una specie di festosa coreografia davanti alle telecamere l’81enne Berlusconi, immemore di valutazioni olgettinesche sulla compattezza dei glutei, ha piazzato lì: «Chi mi sta toccando il culo?». Eh, saperlo!
Il presidente Grasso preteso moroso col Pd; il suo creditore-accusatore Bonifazi mezzo nudo su un divano, pure lui con cani; il governatore De Luca poggia le braccia sul collo dei due figli; quando la Procura gliene ha toccato uno, eccolo subito in tv rabbioso: «Siamo alla barbarie», promette «la resistenza», si dichiara «partigiano». Tutto sembra precipitato in basso, senza più distinzioni gerarchiche, di passione, di speranza, di decoro, di gravità, di niente. Vaccini, scontrini, Traini.
L’eccesso di vaniloquio fa sì che i talk show risultino ormai muti, calamitando lo sguardo sui volti attoniti dei figuranti. Silvione ha rifirmato il Contratto chiamandolo Impegno, ha rifatto lo spiritoso sui capelli e promesso un posto a Vespa. La direzione artistica di Porta a porta, d’altra parte, ha consentito a Giorgia Meloni di portarsi in trasmissione la mamma di Pamela. Ma la definitiva centralità di Barbara D’Urso ha forzato e aggiornato i rituali di consacrazione televisiva con siglette soft, applauso di benvenuto, passeggiata piaciona dell’ospite con bacetto alla taccutissima conduttrice: «Mi avevano detto che eri un bel giovane – così a Di Battista – ma sei anche molto alto».
In compenso parlano, anzi rimbombano le foto, con l’energia di visioni provvisorie e stralunatissime. Sgarbi sulla tazza del cesso. Salvini con un fucile in braccio. Boschi al Carnevale tirolese. Casini sotto l’altarino del riformismo. Le nonne di Renzi garantiscono la bontà del nipote, ci mancherebbe. Nei giorni furibondi della campagna elettorale la società civile ha finito per adeguarsi. Un turista francese – quasi un presagio – ha fatto la pipì dentro una fioriera di Montecitorio; la testimone delle cene eleganti Ambra Battilana, ora decisiva in #MeToo made in Usa, vuol fare un film; e per qualche ragione l’altra settimana è anche esploso il ristorante di pesce di Walterino Lavitola.
Fra stupore e malinconia, viene da chiedersi che cosa resterà nella memoria collettiva dell’ex fidanzato rumeno che faceva i rimborsi all’onorevole cinque stelle Giulia Sarti; se sarà eletta la misteriosa Marta Fascetta candidata berlusconiana in quota Milan-Pascale; e quali altri fastidi sarà costretta a patire la signora De Falco – giù le mani, czz – cui Gigino Di Maio ha portato la sua problematica solidarietà. Tutto scorre, in fondo, tutto se lo porteranno via le urne, tutto forse vale la pena di prenderlo come viene-viene in questo tempo interminabile di sconsolata buffoneria.