a cura di Antonio Carioti
C’è un pezzo della storia italiana, l’esperienza coloniale, che proprio non ci piace ricordare, tanto che l’abbiamo quasi cancellato. Lo sottolinea Francesco Filippi nel libro Noi però gli abbiamo fatto le strade (Bollati Boringhieri), che verrà presentato al Salone di Torino. Per approfondire la questione abbiamo messo a confronto l’autore con Federica Saini Fasanotti, autrice di diversi studi sulla presenza italiana in Africa.
FEDERICA SAINI FASANOTTI — Il nostro è stato un colonialismo piuttosto «straccione». È durato poco, abbiamo investito somme limitate e dai possedimenti africani non abbiamo ricavato un granché. Non c’è stata una osmosi culturale come quella che si è prodotta tra la Francia e il Maghreb. Inoltre, pur essendo cominciato prima, il nostro colonialismo si è in gran parte identificato con il fascismo, che ogni 9 maggio festeggiava la conquista dell’Etiopia e la «fondazione dell’impero». Dopo il crollo del regime, i partiti antifascisti hanno preferito metterci una pietra sopra. E sul colonialismo, già non molto sentito dalla massa degli italiani, è caduto l’oblio, anche perché, grazie all’armistizio dell’8 settembre 1943, abbiamo evitato che i nostri militari venissero processati per i crimini compiuti in Africa.
FRANCESCO FILIPPI — Se lo paragoniamo ad altre esperienze europee, il nostro è un colonialismo tardivo, anche perché l’Italia unita nasce solo nel 1861. Però nella nostra vicenda nazionale ha una notevole continuità. Il primo embrione risale al 1869, con la compagnia Rubattino che s’insedia ad Assab sul Mar Rosso. Poi diventa colonialismo di Stato nel 1882 in Eritrea. E via via attraversa l’Italia liberale, quella fascista e anche quella democratica, visto che il mandato italiano sulla Somalia termina nel 1960. Del resto prima del trattato di pace del 1947 Alcide De Gasperi e il ministro degli Esteri Carlo Sforza, in nome della «civilizzazione» dell’Africa, chiedevano il ritorno all’Italia di tutte le colonie, tranne l’Etiopia invasa dal fascismo. E almeno il mandato sulla Somalia lo ottennero.
C’è però una notevole differenza rispetto alle maggiori potenze europee.
FRANCESCO FILIPPI — Altri Paesi sono stati costretti a fare i conti con l’eredità coloniale: la Gran Bretagna con l’afflusso di immigrati dalle colonie o ex colonie già negli anni Cinquanta, la Francia con le guerre d’Indocina e di Algeria. In Italia dal 1960 in poi non c’è proprio più traccia di un rapporto con le ex colonie a livello di memoria pubblica.
Forse anche perché il nostro colonialismo è stato molto brutale, come sottolinea Filippi nel libro.
FEDERICA SAINI FASANOTTI — Nella fase della conquista i colonialismi si assomigliano un po’ tutti per l’uso spietato della violenza. In Algeria nell’Ottocento il generale francese Thomas Robert Bugeaud ordina di asfissiare i ribelli di Abd el-Kader rifugiati nelle caverne, affumicandoli «come volpi nelle tane». E assegna un premio in denaro ai soldati per ogni testa di rivoltoso che portano. I britannici a loro volta sono brutali nella repressione in India e nelle guerre in Sudafrica contro i boeri. Noi italiani non ci siamo certo comportati da «brava gente», abbiamo creato terribili campi di concentramento in Libia e usato i gas in Etiopia. Bisogna esserne consapevoli. Ma non siamo stati più feroci di altri europei.
Non è un po’ autoassolutoria questa posizione?
FEDERICA SAINI FASANOTTI — Comprendere non significa giustificare. A volte io sono stata accusata di voler attenuare la condanna del nostro colonialismo, perché ho fatto notare che i comportamenti dei militari italiani riflettevano le condizioni locali. Per esempio il capo guerrigliero etiope Hailù Chebbedè, una sorta di primula rossa della lotta anticoloniale, viene decapitato dopo la cattura. La sua testa viene esposta e fotografata dagli italiani in una scatola di biscotti. Un gesto agghiacciante. Ma perché in Libia non succede niente del genere? Perché in Etiopia gli invasori si adeguano agli usi dei combattenti etiopi, che infilavano sulle picche le teste dei nemici. E poi mostrare il capo mozzato di Hailù Chebbedè serve anche a dimostrare che quel mitico capo degli insorti era stato davvero eliminato. Senza quella prova, la popolazione non ci avrebbe creduto. Sono dinamiche di tipo antropologico che fanno scattare una violenza spropositata. E che ritroviamo anche nei conflitti attuali.
FRANCESCO FILIPPI — Sono d’accordo sul fatto che il colonialismo italiano non è stato peggiore degli altri. Ma bisogna anche sottolineare che non è stato migliore, come troppo spesso ce lo siamo raccontato. Poi c’è un fatto: dato che il nostro colonialismo arrivava per ultimo ed è stato per molti versi occasionale, perché occupava gli spazi lasciati liberi da altri, ha caricato sulle forze armate, in mancanza di un apparato amministrativo adeguato, il compito non solo della conquista, ma anche della occupazione e gestione dei territori acquisiti. La stessa Eritrea, «colonia primigenia», rimane per decenni sotto il controllo dell’esercito. E ogni problema, non solo di sicurezza ma anche economico, viene ricondotto alla dimensione militare, con il conseguente esercizio della violenza. Per questo il colonialismo italiano non ha lasciato nelle popolazioni autoctone il ricordo di un’azione positiva, come è successo invece in parte per i britannici in India.
FEDERICA SAINI FASANOTTI — Qualcosa del genere è successo negli ultimi vent’anni in Afghanistan, dove ai militari è stato assegnato il compito di costruire la nazione e di darle istituzioni rappresentative. Una missione che non erano in grado di svolgere.
FRANCESCO FILIPPI — Un esercito serve a combattere, non è lo strumento adatto per governare un Paese. Nel colonialismo italiano, affetto da una cronica mancanza di risorse e relegato in secondo piano negli interessi dell’opinione pubblica, questo problema emerge chiaramente. In Gran Bretagna il colonialismo diventa un’opportunità anche per coinvolgere gallesi e scozzesi nella vita del Paese, attraverso la loro partecipazione alla costruzione e alla gestione dell’impero. In Italia non succede niente del genere: per esempio i tentativi di popolamento dei possedimenti africani, visti come alternativa all’emigrazione in America, sortiscono scarsi risultati. In compenso il nostro colonialismo mostra subito forti tendenze razziste.
Come mai?
FRANCESCO FILIPPI — Perché si sviluppa proprio mentre si vanno diffondendo le idee del razzismo biologico e del darwinismo sociale, poi portate all’estremo dal fascismo, che vedono le nazioni come organismi tendenti a espandersi per natura a spese dei popoli considerati inferiori e selvaggi. Vale anche per un altro colonialismo tardivo, quello tedesco, che infatti nell’attuale Namibia si macchia ai primi del Novecento di un genocidio nei confronti del popolo Herero.
FEDERICA SAINI FASANOTTI — La mentalità che afferma la supremazia dei bianchi è forte anche in Gran Bretagna. I libri di guerra ne sono impregnati.
FRANCESCO FILIPPI — Si pensi al bellissimo film Zulu del 1964, con Michael Caine, in cui gli africani sono rappresentati come la marea nera contrapposta alle eroiche giubbe rosse.
Torniamo all’Italia: si nota la differenza tra Stato liberale e regime fascista nella politica coloniale?
FEDERICA SAINI FASANOTTI — In parte sì e in parte no. Una continuità senza dubbio c’è. Per esempio la riconquista della Libia, che le forze italiane hanno occupato nel 1911-12 e poi abbandonato quasi del tutto durante la Prima guerra mondiale, comincia nel gennaio 1922, prima dell’avvento al governo di Benito Mussolini. E c’è già il generale Rodolfo Graziani all’opera. Ma certo con il fascismo assistiamo a un cambio di marcia, sia sul piano propagandistico sia su quello dell’impegno militare. I tentativi di trovare un accordo con i popoli autoctoni che erano stati esperiti dai governi liberali sono abbandonati.
FRANCESCO FILIPPI — Non si parla più di cittadinanza italo-libica.
FEDERICA SAINI FASANOTTI — Macché. Tutto passa in mano ai militari, che a partire dal 1928, quando viene istituito un comando militare unificato per le regioni costiere, la Tripolitania e la Cirenaica, attuano operazioni sistematiche per sradicare la resistenza senussita di Omar al-Mukhtar. Il confine con l’Egitto viene sigillato e le popolazioni seminomadi sono internate in campi di concentramento per togliere ai guerriglieri l’acqua in cui nuotavano. Poi i capi della resistenza sono braccati ed eliminati uno per uno. Incluso al-Mukhtar, impiccato nel 1931.
FRANCESCO FILIPPI — C’è una continuità anche negli uomini. Il governatore Giovanni Volpi, che nel 1922 rioccupa la località libica di Misurata sotto il governo Facta, sarà poi ministro di Mussolini. Lo stesso racconto che si fa delle colonie è simile tra prefascismo e fascismo. Si parla di civilizzazione, si prospettano grandi opportunità economiche, quasi che l’Africa fosse un Eldorado. Una novità del fascismo è l’uso propagandistico della vicende belliche da parte dei gerarchi. La stella di Graziani nasce in Libia. Cesare Maria De Vecchi impone una svolta autoritaria in Somalia. Ovviamente si raggiunge il culmine con la guerra d’Etiopia. Voli sulle ambe di Vittorio Mussolini, figlio del Duce, è un libro che entra nell’immaginario nazionale, mentre i reduci tacciono gli aspetti più crudi della guerra. Purtroppo un meccanismo del genere è scattato, con una inquietante continuità, anche nella missione in Somalia Restore Hope degli anni Novanta, quando episodi di violenza dei militari italiani nei riguardi della popolazione locale sono venuti a galla solo in parte.
Oggi tutte le ex colonie italiane sono in preda a guerre intestine o sottomesse a brutali dittature. C’entra qualcosa quel passato?
FEDERICA SAINI FASANOTTI — È una domanda che mi sono fatta spesso. La Somalia è uno Stato fallito, la Libia è in sfacelo, in Etiopia c’è una guerra intestina. Certamente in quelle terre l’Italia ha lasciato il segno, come hanno fatto gli americani in Afghanistan. Un primo punto è che i colonizzatori hanno usato a loro vantaggio, inasprendole, le divisioni già esistenti tra le popolazioni locali. Ma ciò è stato possibile perché in quelle aree c’era un tessuto sociale tribale e clanico.
FRANCESCO FILIPPI — Non conoscevano il concetto di nazione. Lo abbiamo importato noi in quelle terre.
FEDERICA SAINI FASANOTTI — Sì, ma con scarso successo, visto che tuttora le popolazioni della Libia, per esempio, non hanno come punto di riferimento lo Stato, del quale a loro non importa nulla, ma la tribù. L’errore della comunità internazionale è stato ed è tuttora pensare di poter pacificare quei territori introducendo istituzioni rappresentative di tipo occidentale, che alle genti locali interessano solo in chiave strumentale, per rafforzare la posizione del loro gruppo clanico. Pensate che nel 2012 il giornalista della Bbc Wyre Davies, scrivendo della Libia, citava gli scontri cruenti tra gli Zintan e i Mishasha, due tribù che già nel 1924 Graziani descriveva come divise da un’antica e irriducibile inimicizia.
FRANCESCO FILIPPI — Paradossalmente quel po’ di identità nazionale che si sviluppa nei possedimenti italiani è dovuto proprio alla presenza dei colonizzatori, che in alcune situazioni funziona da fattore unificante nel senso che ci si coalizza contro gli invasori. Il modo in cui finisce il dominio italiano, in seguito alla Seconda guerra mondiale, lascia poi quelle terre prive della tutela che in altri Paesi l’ex potenza coloniale (penso al Kenya, rimasto molto legato a Londra) esercita dopo l’indipendenza. È tipico il caso dell’Eritrea, che nasce come nazionalità in seguito alla colonizzazione italiana. Dopo la sconfitta del fascismo, essa finisce nell’orbita dell’impero d’Etiopia, anzi a un certo punto viene annessa dal governo di Addis Abeba; ne consegue una guerra terribile che termina nel 1993, con l’indipendenza dell’Eritrea, ma ha strascichi sanguinosi che giungono fino a oggi.
Che succede in Somalia e in Libia?
FRANCESCO FILIPPI — Conoscono entrambe nel 1969 brutali cambi di regime che portano all’emarginazione, se non alla cacciata, delle larvate élite italo-somale o italo-libiche, che mantenevano un rapporto con il nostro Paese.
FEDERICA SAINI FASANOTTI — Per esempio Gheddafi in Libia usa l’anticolonialismo rivolto contro l’Italia come collante per una popolazione profondamente divisa. Infatti pochi mesi dopo l’ascesa al potere espelle tutti i coloni italiani rimasti, anche se poi, sottobanco, il dittatore di Tripoli continua a fare grandi affari con le aziende del nostro Paese.
FRANCESCO FILIPPI — In generale le ex colonie italiane vengono presto coinvolte nei conflitti regionali e nella guerra fredda. Sono contese tra influenze esterne di vario tipo e governate da dittatori, come Gheddafi e il somalo Siad Barre, che assumono posizioni ondivaghe a seconda delle circostanze. Poi nel 1974 cade il negus Hailè Selassiè, imperatore d’Etiopia, e tutta la regione finisce nel caos: soprattutto la Somalia, dove negli anni Novanta l’intervento occidentale per rimettere in piedi il Paese, a cui abbiamo accennato, si risolve in un fallimento.
L’ostilità verso gli immigrati africani, oggi in Italia, ha qualcosa a che vedere con il passato coloniale?
FEDERICA SAINI FASANOTTI — Se chiedessimo alle persone per strada che cosa sanno del colonialismo italiano, probabilmente la maggioranza farebbe scena muta. Del resto ai miei tempi nei manuali scolastici di storia quasi non se ne parlava. Forse oggi c’è qualcosa di più, ma dubito che gli studenti conoscano quelle vicende. Del resto proprio all’inizio della nostra conversazione abbiamo constatato l’oblio che è caduto sul passato coloniale e sarebbe contraddittorio adesso dire che siamo razzisti perché abbiamo avuto dei possedimenti africani. Credo piuttosto che il razzismo derivi soprattutto dall’ignoranza.
FRANCESCO FILIPPI — Io la penso un po’ diversamente. Senza dubbio a livello popolare c’è un deserto di conoscenza sul nostro colonialismo. Ma proprio questo contribuisce a renderci insensibili verso certe manifestazioni di razzismo. Penso a blackface, l’uso di attori con il volto dipinto di nero per interpretare in modo grottesco personaggi di origine africana: in America è un tema di discussione dagli anni Sessanta, in Gran Bretagna dagli anni Ottanta, mentre da noi si comincia a parlarne solo ora. Il fatto che il colonialismo italiano sia finito in modo traumatico insieme al fascismo ha ammutolito all’improvviso la grancassa che il regime aveva montato sul destino imperiale dell’Italia. Ne sono rimasti solo piccoli frammenti, tipo il ricordo di canzoni come Tripoli bel suol d’amore e Faccetta nera.
Che c’entra questo con la xenofobia dei giorni nostri?
FRANCESCO FILIPPI — Quando l’Italia da terra di emigrazione è divenuta terra d’immigrazione, ci siamo trovati di nuovo, dopo molti anni, di fronte all’altro, come era accaduto in epoca coloniale. E per comprendere l’altro abbiamo ripescato i residui di un passato che era impregnato di pregiudizi razziali, per cui i neri sono selvaggi con «l’anello al naso» o «la sveglia al collo». Poi quando da fuori sono arrivati in Italia i riflessi dei conflitti razziali, come le campagne di Black Lives Matter, ci siamo trovati spiazzati, perché questioni del genere da noi non si erano mai poste. Un po’ come in Belgio, dove a un tratto hanno scoperto di avere numerosi monumenti del re Leopoldo II, colpevole di gravi crimini in Congo. Invece credo che un recupero serio e senza sconti della nostra storia coloniale potrebbe essere utile ad affrontare meglio i problemi del presente.