Alice Zanin/ La cartapesta era il materiale più congeniale al mio desiderio di creare lavori che trasmettessero un senso di leggerezza. Di fatto le forme di questi animali in senso propriamente fisico sono articolate in fil di ferro ingabbiando una porzione d’aria, o di nulla. Mi affascinano poi le possibilità di sospensione delle opere nello spazio senza l’ausilio di strutture portanti. La loro povertà in termini di peso le fa ruotare alla minima corrente, contribuendo a dare un’idea insieme di movimento e di “rarefazione”.
CA/ I corpi delle tue sculture sono ricoperti di “parole”, forse perché la fisicità tangibile e concreta si accompagna ad una componente mutevole e variabile quale è, in sostanza, la parola?
AZ/ Nella prima parte della mia produzione la componente verbale era proprio riconducibile all’idea di effimero, transitorio e mutevole appunto. L’animale poi rimanda tradizionalmente al senso della fiaba, dell’onirico o dell’esotico, comunque, in qualche modo, ad una dimensione poco concreta. Un animale di parole è come dire “X=coniglio”, per citare Meret Oppenheim… si può dire qualunque cosa senza un necessario riscontro con il reale; a parole si sogna, si affabula, si mente.
In seguito ho iniziato ad eliminare le parti testuali dei quotidiani per ottenere superfici più lievi, giocate su accordi cromatici tra le carte. Sto comunque sperimentando sulle coperture dei pezzi.
CA/ Nella tua recente personale dal titolo “Circus Circes”, allestita negli spazi della Galleria Bianca Maria Rizzi & Matthias Ritter a Milano, hai unito i tuoi animali a oggetti di uso quotidiano…
AZ/ Il mio lavoro resta scultoreo, ma tende all’installazione soprattutto in termini espositivi. Costruire un dialogo tra opere e oggetti risponde all’esigenza di inscenare una situazione, nel caso citato ho concepito la galleria come una sorta di teatro dove proporre un circo inteso più nell’accezione di assurdo immaginifico che propriamente circense. In effetti l’unico animale pertinente allo spettacolo era un elefante, sospeso a centro sala come un lampadario sopra ad un’iperbolica piramide di arachidi. Il registro dialogico prescelto è quello dell’ironia o dell’incongruenza o ancora dell’associazione di idee. Spesso si tratta di scelte che definirei “automatiche”: vedendo un’ingombrante lampada a stelo in un mercatino ne ho ad esempio immaginato il paralume volante e così l’ho utilizzato (Magritte del resto non era proprio d’accordo sul fatto che il pensiero si potesse situare in una qualche parte del corpo umano…).
L’oggetto ha catalizzato l’attenzione di molta parte dell’arte del Novecento, dal Dadaismo in poi. È evidentemente una presenza scenica dal forte appeal, un’icona. E dal mio punto di vista, anche l’animale lo è. Se dunque se ne travisa la convenzionale destinazione d’uso, si ottiene una relazione oscillante tra il reciproco imbarazzo e una galante ironia.
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