In Italia poco interesse per il voto. È la crisi economica a fare paura

Questo continuo ritorno dei medesimi argomenti stimola il ragionevole dubbio che la politica non affronterà con serietà i problemi. Anzi, resterà fedele a una comunicazione che aiuta, insieme alle iperboli del linguaggio, a rimandare e rinviare le scelte complicate.

Abbiamo compreso che di volta in volta, e di anno in anno, il vero spartiacque sulle promesse della politica e le attese del popolo sono le elezioni.

Nazionali o locali, sono un ottimo stimolo per riscuotere garanzie pregresse o per rimettere “in bolla” antichi equilibri disarmonici.

Tuttavia manca sempre il saper osare e scommettere sul futuro, il coraggio di reagire per uscire dall’ordinario. Così in attesa di comprendere l’esito del voto alle regionali e al referendum sul taglio dei parlamentari di domenica e lunedì prossimi, gli italiani si trascinano svogliatamente persuasi che il significato del voto si stia inaridendo.

La pandemia ci ha posto di fronte a una seria minaccia, che ha fatto emergere i punti di forza e di criticità del nostro sistema sanitario. Il lockdown ha messo lo stop a tutte le attività produttive e commerciali, facendo implodere le certezze su cui ognuno di noi aveva pianificato il proprio futuro. La sospensione delle lezioni con lo smart working ha stravolto, nel bene e nel male, la quotidianità delle famiglie. E allora, in una situazione così trasfigurata, gli elettori si chiedono: perché la politica non si arma di coraggio e non pensa più solo a sopravvivere a se stessa, ma a reagire?

Gli italiani hanno ben compreso che il quadro economico e sociale del nostro Paese è oggettivamente complicato e allo stesso tempo nebuloso, tuttavia le loro speranze vanno in un’unica direzione: il ritorno a una -per quanto anomala- stabilità. Il 65 per cento, pur riconoscendone lo sforzo e l’impegno, ritiene insufficienti le misure del Governo, dando la colpa alle politiche economiche nazionali. I dati ci dicono che, nonostante la crisi, molti sono i Paesi in Europa che hanno pianificato una fase di crescita, mentre l’Italia rimane ancorata agli ingarbugli burocratici che rallentano le nostre imprese e, senza un’efficace riforma della giustizia civile, ne bloccano anche gli investimenti dall’estero. In tutto ciò un lavoratore su due si dice fortemente preoccupato per la sua situazione lavorativa.

Covid-19 è arrivato in una condizione sociale già caratterizzata da forti diseguaglianze, che nella percezione comune erano già sentite dalla crisi del 2008.

Oggi il timore di una società non meritocratica che possa generare nuove barriere sociali, unitamente alle criticità nel conciliare i nuovi tempi di vita dettate dalla diffusione del virus, si unisce al timore che al termine del “Cura Italia”, previsto per la fine di dicembre 2020, ci sia uno shock strutturale e organizzativo aziendale che produrrà nuova disoccupazione. Così il tema delle diseguaglianze rimane in primo piano perché il rischio di generare una società con delle divisioni tra lavoratori pubblici garantiti e lavoratori privati con scarse assicurazioni per il futuro è molto forte.

Mentre i risparmi aumentano e i consumi diminuiscono, l’Italia rimane fanalino di coda anche nelle nascite. Da sempre ciò che muove l’uomo nelle sue scelte sono gli obiettivi che portano a un miglioramento e a una completezza della propria vita. Ma se fare un figlio diventa principalmente un vincolo di investimento economico e non più un’immensa risorsa di gioia… Siamo una società molto povera e con un futuro incerto.

www.lastampa.it