Immaginare il futuro
Ridurre la densità urbana. Aumentare la sicurezza. Ridisegnare edifici e spazi comuni. La pandemia non è l’Apocalisse, assicura uno dei più grandi sociologi del nostro tempo. Ma l’occasione per ripensare i luoghi in cui viviamo
Ho l’impressione di trovarmi in mezzo a un esperimento sociale terribile. Vedremo un notevole aumento delle disuguaglianze.
Candia Castellani
Non facciamoci prendere dal panico, non scambiamo la situazione attuale per l’apocalisse, cerchiamo la giusta distanza da quello che ci succede, confidando nella nostra capacità di ragionare. Soprattutto, ripensiamo i modi e le forme delle nostre abitazioni, delle città che popoliamo (e gli italiani sono avvantaggiati). Coronavirus è una sfida alle nostre capacità di affrontare il mondo e non la fine del mondo. È quanto dice Richard Sennett, uno dei più importanti sociologi viventi (“Costruire e abitare. Etica per la città” è il suo più recente libro, pubblicato da Feltrinelli), una vita fra Londra e New York. La conversazione avviene via Skype, dalla sua casa nella capitale britannica.
Sta succedendo qualcosa che va oltre l’immaginazione. Manhattan con le strade deserte. I centri urbani dell’Occidente trasformati in spazi vuoti. E stiamo rinunciando alle nostre libertà per avere più sicurezza. È una situazione transitoria? Finita l’emergenza, tornerà tutto come prima, o corriamo il pericolo di essere privati dei nostri diritti?
«Né l’uno né l’altro. Penso però che le città non saranno come sono state prima. Ma la vera domanda che mi pongo è la seguente: quanto lavoro potrà essere spostato dai luoghi pubblici a casa?».
La risposta?
«Ho l’impressione che a causa della pandemia siamo in mezzo a una specie di esperimento sociale terribile, dal vivo. L’oggetto di questo esperimento è capire quanto la borghesia sarà capace di alzare uno scudo protettivo intorno a se stessa. Quanto la parte privilegiata della nostra società saprà evitare la troppa esposizione in pubblico, a spese di coloro che non potranno permetterselo a causa delle mansioni che svolgono e che richiedono un contatto fisico permanente. La maggior parte dei lavori manuali – penso agli addetti alle pulizie, ai trasporti, agli infermieri negli ospedali e via elencando – non possono essere fatti in modalità remota. Vedremo un notevole aumento delle disuguaglianze fra borghesia e classe operaia».
Le città, come cambieranno?
«La domanda che viene spontanea è come far fronte al problema della densità, come rendere le città più sicure dal punto di vista sanitario. C’è il problema dei trasporti urbani: è sugli autobus, nelle metropolitane che la gente si accalca. Ma penso che la sfida principale riguardi le forme con cui edifichiamo i nostri spazi cittadini, gli edifici, le piazze. Sono quelle forme, e in cui si esprime la nostra socialità, a darci la sensazione di essere protetti dal mondo, ma pure la concreta consapevolezza di stare stipati, insieme. Ho l’impressione che in Italia il problema sia meno urgente, per vostra fortuna, rispetto a New York».
Perché qui abbiamo le piazze rinascimentali e ottocentesche, luoghi creati come spazi di rappresentanza e non direttamente commerciali?
«Sì. Ma penso anche agli edifici. L’appartamento dove abito a New York fa parte di un palazzo popolato da ottocento persone che condividono quattro ascensori. Questa è una situazione molto diversa rispetto alle costruzioni di pochi piani dove si può salire a piedi le scale, come in Italia. E per tornare agli spazi urbani: dobbiamo avere una bassa densità di abitazioni, un po’ come avviene in certi quartieri di Londra».
Con le casette a due piani e un piccolo centro con un supermercato, una farmacia, un ufficio postale, una lavanderia…
«Diciamo che ridurre la densità è un’idea oggi condivisa non solo da molti urbanisti ma anche dall’attuale sindaca di Parigi, Anne Hidalgo. La capitale francese è notoriamente ipercentralizzata. Hidalgo pensa invece a un decentramento in modo che ci siano tanti piccoli punti di aggregazione raggiungibili a piedi in un quarto d’ora. È la strada giusta. Comunque mi auguro che nel prossimo futuro non vorremo più costruire edifici giganteschi che ospitano centinaia di persone, mettendole a rischio».
Lei parla di New York, degli Stati Uniti, ma sarà difficile cambiare nei luoghi di piccole dimensioni geografiche e con molti abitanti: Hong Kong, Singapore, Tel Aviv.
«Infatti, i fattori di rischio sono molteplici e in autunno condurrò un seminario al Mit di Boston su cosa abbiamo imparato dal rapporto fra i modi in cui abitiamo le città e l’epidemia. Ma una cosa la voglio dire subito».
Prego.
«È fondamentale considerare ciò che sta succedendo come un evento e non come un destino. Sarebbe terribile e inaccettabile pensare che le condizioni attuali dovranno determinare tutto ciò che faremo in futuro. Ecco perché cerco di dire che dobbiamo pensare a nuove forme di edifici e di modi di abitarli, anziché lasciarci andare a un trauma».
Difficile evitare il trauma. Abbiamo la sensazione di un mondo che crolla.
«Il 9 settembre 2001 abitavo a New York».
Anch’io. E mi ricordo la sensazione che un mondo era finito.
«E allora si ricorderà pure come le persone, non a New York City, dove abbiamo elaborato l’accaduto, ma fuori, nella campagne siano rimaste traumatizzate. Si immaginavano che i terroristi islamici avrebbero bombardato le loro fattorie. Una delle conseguenze di questo trauma è stata l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca. Per questo è importante che tutti noi, media compresi, guardiamo la situazione per quello che è: un evento terribile, ma non qualcosa che determinerà totalmente il nostro futuro».
Obiezione. Oggi, viviamo in una dimensione emozionale inedita. Non possiamo toccarci l’un l’altro. Quando guardiamo un film cominciamo a pensare: ma come fa questa gente a baciare una persona appena conosciuta? Crede davvero che niente resterà dall’esperienza di non poter abbracciare un’altra persona, di cambiare marciapiede quando vediamo un altro umano?
«Sta descrivendo una reazione da panico. Ma in giro di un anno o anche meno, avremo un vaccino contro questo virus. Significa che le persone vaccinate potranno toccarsi l’un l’altra. Io ho l’età per ricordarmi il trauma della polio. Poi trovarono il vaccino. Non ha senso dire: non potremo più abbracciarci. Dobbiamo invece imparare cosa fare perché la gente non abbia paura della prossimità. La scienza aiuta, stiamo acquisendo conoscenze e molte ne abbiamo già. Sappiamo cosa fare e lo faremo».
La pandemia finirà. Ma non c’è pericolo che ci abitueremo a rinunciare alle nostre libertà?
«Una cosa simile è ipotizzabile, ma a mio avviso non succederà. Mi spiego. Vorei citare il caso estremo: i campi nazisti. Per noi ebrei è naturale pensarci. Ecco, sbagliava chi era del parere che i campi fossero stati la prova quanto la gente si adatti a tutto. Non è così. Sappiamo grazie a Primo Levi e ad altri testimoni che a sopravvivere sono state le persone che hanno saputo mantenere una certa distanza da quello che accadeva loro, evitare di restare traumatizzate pur essendo sotto choc e in mezzo a cose spaventose».
Levi è riuscito a guardare Auschwitz con occhi da scrittore (anche se solo in potenza), di un borghese di Torino, lontano dal mondo degli ebrei parlanti yiddish. E grazie a questo abbiamo i suoi capolavori e tanta comprensione della condizione umana. E allora, torniamo a noi.
«Quello che stiamo attraversando è orribile, ma dobbiamo mantenere una posizione razionale e una prospettiva. Le cose possono succedere, non è necessario che succedano».
Avremo più Europa o si rafforzeranno gli Stati nazionali?
«Avremo più Europa. Non possiamo esimerci dal pensare così. La lezione che stiamo imparando qui in Gran Bretagna dalla Brexit, e la stiamo imparando con dolore, è che per far fronte alla crisi abbiamo bisogno dell’Europa. Il dibattito da queste parti ha al centro il disastro provocato dall’uscita dell’Unione europa, alla luce della pandemia. Non è difficile capire che dobbiamo condividere informazioni, strategie, materiali sanitari con il resto d’Europa. E invece ci siamo isolati dall’Ue senza poter contare sugli americani. La pandemia non conosce confini».
Spaventa però il fatto che non si vedano in giro leader del calibro di un Churchill, un Roosevelt, De Gaulle…
«Non generalizziamo. Per fortuna non tutti sono come Donald Trump».
Ultima domanda. Abbiamo vissuto in un mondo dove sono state abolite le distanze, la dimensione del tempo. Con la pandemia, quelle dimensioni sembrano essere ripristinate. Cambierà la globalizzazione. Sarà messa in discussione?
«Forse. Ma insisto, stiamo attenti. Nella sua domanda avverto implicita una critica al cosmopolitismo. Dobbiamo invece pensare come essere connessi ancora di più e in una maniera anora più intensa. L’Europa e il mondo hanno bisogno, proprio a causa della pandemia, di più solidarietà, più scambi, e meno distanze. Certamente, di meno nostalgie».
Sta succedendo qualcosa che va oltre l’immaginazione. Manhattan con le strade deserte. I centri urbani dell’Occidente trasformati in spazi vuoti. E stiamo rinunciando alle nostre libertà per avere più sicurezza. È una situazione transitoria? Finita l’emergenza, tornerà tutto come prima, o corriamo il pericolo di essere privati dei nostri diritti?
«Né l’uno né l’altro. Penso però che le città non saranno come sono state prima. Ma la vera domanda che mi pongo è la seguente: quanto lavoro potrà essere spostato dai luoghi pubblici a casa?».
La risposta?
«Ho l’impressione che a causa della pandemia siamo in mezzo a una specie di esperimento sociale terribile, dal vivo. L’oggetto di questo esperimento è capire quanto la borghesia sarà capace di alzare uno scudo protettivo intorno a se stessa. Quanto la parte privilegiata della nostra società saprà evitare la troppa esposizione in pubblico, a spese di coloro che non potranno permetterselo a causa delle mansioni che svolgono e che richiedono un contatto fisico permanente. La maggior parte dei lavori manuali – penso agli addetti alle pulizie, ai trasporti, agli infermieri negli ospedali e via elencando – non possono essere fatti in modalità remota. Vedremo un notevole aumento delle disuguaglianze fra borghesia e classe operaia».
Le città, come cambieranno?
«La domanda che viene spontanea è come far fronte al problema della densità, come rendere le città più sicure dal punto di vista sanitario. C’è il problema dei trasporti urbani: è sugli autobus, nelle metropolitane che la gente si accalca. Ma penso che la sfida principale riguardi le forme con cui edifichiamo i nostri spazi cittadini, gli edifici, le piazze. Sono quelle forme, e in cui si esprime la nostra socialità, a darci la sensazione di essere protetti dal mondo, ma pure la concreta consapevolezza di stare stipati, insieme. Ho l’impressione che in Italia il problema sia meno urgente, per vostra fortuna, rispetto a New York».
Perché qui abbiamo le piazze rinascimentali e ottocentesche, luoghi creati come spazi di rappresentanza e non direttamente commerciali?
«Sì. Ma penso anche agli edifici. L’appartamento dove abito a New York fa parte di un palazzo popolato da ottocento persone che condividono quattro ascensori. Questa è una situazione molto diversa rispetto alle costruzioni di pochi piani dove si può salire a piedi le scale, come in Italia. E per tornare agli spazi urbani: dobbiamo avere una bassa densità di abitazioni, un po’ come avviene in certi quartieri di Londra».
Con le casette a due piani e un piccolo centro con un supermercato, una farmacia, un ufficio postale, una lavanderia…
«Diciamo che ridurre la densità è un’idea oggi condivisa non solo da molti urbanisti ma anche dall’attuale sindaca di Parigi, Anne Hidalgo. La capitale francese è notoriamente ipercentralizzata. Hidalgo pensa invece a un decentramento in modo che ci siano tanti piccoli punti di aggregazione raggiungibili a piedi in un quarto d’ora. È la strada giusta. Comunque mi auguro che nel prossimo futuro non vorremo più costruire edifici giganteschi che ospitano centinaia di persone, mettendole a rischio».
Lei parla di New York, degli Stati Uniti, ma sarà difficile cambiare nei luoghi di piccole dimensioni geografiche e con molti abitanti: Hong Kong, Singapore, Tel Aviv.
«Infatti, i fattori di rischio sono molteplici e in autunno condurrò un seminario al Mit di Boston su cosa abbiamo imparato dal rapporto fra i modi in cui abitiamo le città e l’epidemia. Ma una cosa la voglio dire subito».
Prego.
«È fondamentale considerare ciò che sta succedendo come un evento e non come un destino. Sarebbe terribile e inaccettabile pensare che le condizioni attuali dovranno determinare tutto ciò che faremo in futuro. Ecco perché cerco di dire che dobbiamo pensare a nuove forme di edifici e di modi di abitarli, anziché lasciarci andare a un trauma».
Difficile evitare il trauma. Abbiamo la sensazione di un mondo che crolla.
«Il 9 settembre 2001 abitavo a New York».
Anch’io. E mi ricordo la sensazione che un mondo era finito.
«E allora si ricorderà pure come le persone, non a New York City, dove abbiamo elaborato l’accaduto, ma fuori, nella campagne siano rimaste traumatizzate. Si immaginavano che i terroristi islamici avrebbero bombardato le loro fattorie. Una delle conseguenze di questo trauma è stata l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca. Per questo è importante che tutti noi, media compresi, guardiamo la situazione per quello che è: un evento terribile, ma non qualcosa che determinerà totalmente il nostro futuro».
Obiezione. Oggi, viviamo in una dimensione emozionale inedita. Non possiamo toccarci l’un l’altro. Quando guardiamo un film cominciamo a pensare: ma come fa questa gente a baciare una persona appena conosciuta? Crede davvero che niente resterà dall’esperienza di non poter abbracciare un’altra persona, di cambiare marciapiede quando vediamo un altro umano?
«Sta descrivendo una reazione da panico. Ma in giro di un anno o anche meno, avremo un vaccino contro questo virus. Significa che le persone vaccinate potranno toccarsi l’un l’altra. Io ho l’età per ricordarmi il trauma della polio. Poi trovarono il vaccino. Non ha senso dire: non potremo più abbracciarci. Dobbiamo invece imparare cosa fare perché la gente non abbia paura della prossimità. La scienza aiuta, stiamo acquisendo conoscenze e molte ne abbiamo già. Sappiamo cosa fare e lo faremo».
La pandemia finirà. Ma non c’è pericolo che ci abitueremo a rinunciare alle nostre libertà?
«Una cosa simile è ipotizzabile, ma a mio avviso non succederà. Mi spiego. Vorei citare il caso estremo: i campi nazisti. Per noi ebrei è naturale pensarci. Ecco, sbagliava chi era del parere che i campi fossero stati la prova quanto la gente si adatti a tutto. Non è così. Sappiamo grazie a Primo Levi e ad altri testimoni che a sopravvivere sono state le persone che hanno saputo mantenere una certa distanza da quello che accadeva loro, evitare di restare traumatizzate pur essendo sotto choc e in mezzo a cose spaventose».
Levi è riuscito a guardare Auschwitz con occhi da scrittore (anche se solo in potenza), di un borghese di Torino, lontano dal mondo degli ebrei parlanti yiddish. E grazie a questo abbiamo i suoi capolavori e tanta comprensione della condizione umana. E allora, torniamo a noi.
«Quello che stiamo attraversando è orribile, ma dobbiamo mantenere una posizione razionale e una prospettiva. Le cose possono succedere, non è necessario che succedano».
Avremo più Europa o si rafforzeranno gli Stati nazionali?
«Avremo più Europa. Non possiamo esimerci dal pensare così. La lezione che stiamo imparando qui in Gran Bretagna dalla Brexit, e la stiamo imparando con dolore, è che per far fronte alla crisi abbiamo bisogno dell’Europa. Il dibattito da queste parti ha al centro il disastro provocato dall’uscita dell’Unione europa, alla luce della pandemia. Non è difficile capire che dobbiamo condividere informazioni, strategie, materiali sanitari con il resto d’Europa. E invece ci siamo isolati dall’Ue senza poter contare sugli americani. La pandemia non conosce confini».
Spaventa però il fatto che non si vedano in giro leader del calibro di un Churchill, un Roosevelt, De Gaulle…
«Non generalizziamo. Per fortuna non tutti sono come Donald Trump».
Ultima domanda. Abbiamo vissuto in un mondo dove sono state abolite le distanze, la dimensione del tempo. Con la pandemia, quelle dimensioni sembrano essere ripristinate. Cambierà la globalizzazione. Sarà messa in discussione?
«Forse. Ma insisto, stiamo attenti. Nella sua domanda avverto implicita una critica al cosmopolitismo. Dobbiamo invece pensare come essere connessi ancora di più e in una maniera anora più intensa. L’Europa e il mondo hanno bisogno, proprio a causa della pandemia, di più solidarietà, più scambi, e meno distanze. Certamente, di meno nostalgie».