Il tentativo dell’avvocato e dei suoi amici di annacquare le prove Il verbale del legale dell’azienda: “Queste cose nemmeno a Guantanamo”
di Giuliano Foschini e Fabio Tonacci
ROMA — Due ragazzi, due operai dell’Ilva di 35 e 24 anni, Alessandro Morricella e Giacomo Campo, sono morti sul lavoro. Inghiottito da una fiammata Alessandro. Mangiato da un nastro trasportatore Giacomo. Qualcuno ha provato però a ucciderli anche da morti, negando la verità e la giustizia che meritavano, depistando le indagini, annacquando e alterando le prove. A farlo, sostengono i magistrati di Potenza, è stato il consulente dell’Ilva, l’avvocato Piero Amara, con la complicità di due pezzi dello Stato: l’allora procuratore di Taranto, Carlo Maria Capristo e i consulenti pubblici dell’amministrazione straordinaria di Ilva.
La storia, forse la più agghiacciante, è raccontata nelle mille e passa pagine depositate dalla procura di Potenza guidata da Francesco Curcio. E servono per spiegare come — le parole sono del gip Antonello Amodeo — sia stata «svenduta la giustizia » anche di fronte alla morte di due ragazzi. Diciassette settembre del 2016. «Giacomo Campo, dipendente di una ditta esterna, rimaneva stritolato nel nastro trasportatore che alimentava l’AFO 4». Sulla scena dell’Ilva arriva l’avvocato Amara. Nicola Nicoletti, potente consulente dei commissari, chiama Angelo Loreto, legale che fino a quel momento aveva gestito la faccenda Ilva. «In tale occasione — mette a verbale Loreto — mi disse che avevano contattato il procuratore di Taranto e che io mi sarei dovuto sentire con Amara, il quale mi riferì che aveva preso accordi con il procuratore». Qual era il ruolo di Amara? Limitare le responsabilità dell’azienda nell’incidente. E, soprattutto, evitare la chiusura dell’Altoforno. Amara riesce nell’intento. Con due mosse. È lui a suggerire a Capristo «il nominativo del consulente tecnico» che avrebbe dovuto indagare, ossia Massimo Sorli. Ed è ancora Amara, per il tramite di un prestanome, a pagare il biglietto aereo che porta l’ingegner Sorli da Torino a Taranto. La mossa si rivela azzeccata. «In 48 ore — scrive il giudice — peraltro sulla base di un assunto, conforme alla tesi dell’Ilva, ma risultato infondato, l’Altoforno viene dissequestrato». Ma c’è di più. Amara si presenta a Taranto con il suo strumento più rodato: il depistaggio. Capristo fa filtrare alla stampa l’ipotesi, inventata, che dietro l’incidente ci possa essere un sabotaggio. «E io nelle settimane precedenti — dice l’avvocato Loreto — venni più volte contattato da Nicoletti (…) e dallo stesso Amara che voleva che predisponessi una denuncia per un presunto sabotaggio futuro (…) dissi che se erano così convinti la potevano firmare loro». L’ipotesi sabotaggio non fu mai messa per iscritto dall’Ilva. Restò però sulle pagine dei giornali.
Lo schema si ripetette qualche mese dopo quando c’era da affrontare il tema della morte di Alessandro Morricella, avvenuta l’anno precedente.
Piero Amara Dopo la morte dell’operaio, la procura aveva di nuovo sequestrato l’Altoforno, e di nuovo dissequestrato grazie agli effetti di un decreto voluto dall’allora ministro Carlo Calenda. Decreto che però la Corte costituzionale bollò come illegittimo. Dopo la decisione della Corte, la pm Raffaella De Luca voleva rimettere i sigilli, ma Capristo si oppose. «E — si legge negli atti — nel corso delle ferie estive del 2019, approfittando dell’assenza della dottoressa De Luca, che pure gli aveva anticipato il suo parere contrario a concedere la facoltà d’uso in assenza del nulla osta di un tecnico, si pronunciava favorevolmente alla facoltà d’uso». Restituito l’Altoforno, restava però un altro problema: garantire l’impunità ai dirigenti Ilva. Il consulente Nicoletti elaborò una strategia, per come la racconta Loreto. «Convincere l’operatore del campo di colata, il signor Catucci, che aveva effettuato le operazioni a seguito delle quali vi era stato il decesso del Morricella, ad ammettere le sue responsabilità, scagionando la catena di comando ». In sostanza: prendere il pesce più piccolo e addossargli la colpa. «Nicoletti — mette a verbale Francesco Brescia, dell’ufficio legale Ilva — affermò che questa tesi era condivisa da Capristo. Gli dissi che in uno Stato democratico non era possibile imporre la confessione, anche perché se Catucci avesse confessato avrebbe perso il posto e sarebbe stato condannalo (…). Queste cose non succedono nemmeno a Guantanamo ».