“C’era una volta un impero millenario”.
Quello che sembra il tipico inizio di una fiaba incantata, di quelle dal lieto fine obbligato, è invece la testimonianza di una tragica realtà che si abbatté senza sconti alcuni su buona parte della Mitteleuropa, nell’infausta data del 1918. La sconfitta nella Grande Guerra, dovuta al collasso sociale interno, segnò la fine dell’impero asburgico, figlio naturale e legittimo del Sacro Romano Impero. Con la sconfitta del 1918, non tramonta solamente un vecchia forma di governo: una concezione antica di unità universale viene picconata dalle forze centrifughe dei nazionalismi, che già da tempo avevano cominciato, sul territorio, la loro azione altamente corrosiva. Nazionalismi, appunto, i cui esponenti non poterono che provare piacere, di fronte al crollo del potere asburgico, seguiti in questo anche dalle forze sovversive socialiste e comuniste. Non tutti gli ex-sudditi, però, accolsero con animo sereno il cambiamento epocale che si presentava loro davanti. Complice probabilmente un dopoguerra burrascoso – inevitabile, vista la portata dell’evento – si ingrossarono sempre di più le fila dei nostalgici del vecchio regime. Si viene a creare, nel corso del dopoguerra, quello che Claudio Magris chiama “il mito absburgico” nel suo omonimo libro, ovvero una idealizzazione generalizzata dell’età imperiale come età dell’ordine, della rilevanza internazionale, dell’armonia. Tutto questo si contrapponeva al loro presente fatto di divisione, guerriglie, rivolte, colpi di stato e instabilità sociale; in pratica l’impero diventa il sogno dell’ordine nel bel mezzo del caos. Questo mito è rintracciabile nella filigrana di molti scrittori mitteleuropei di quel periodo, in particolare nella generazione che, subito il dramma della guerra, si trovava costretta a subire anche la tragedia della sconfitta.
Nell’ottica di questo discorso, uno degli autori più importanti può essere individuato in Joseph Roth. Si potrebbe pensare che i più appassionati nostalgici del periodo asburgico si trovassero in quel di Vienna, fossero austriaci purosangue provenienti dalle famiglie più in vista. In tal caso, Joseph Roth costituirebbe una grossa delusione, poiché nato nel lontano territorio della Volinia, nella periferia orientale, da una modesta famiglia di origini ebraiche. Roth si arruolò volontario nella Prima guerra mondiale, successivamente lavorò regolarmente come giornalista a Vienna e a Berlino. Nei primi anni del dopoguerra, Joseph Roth sembra attestarsi su posizioni politiche sostanzialmente socialisteggianti e anarchiche; scrive pure i primi romanzi, dove indaga il disagio sociale dei reduci tornati in patria. Qualche anno più tardi, ecco la svolta ideologica di Roth, testimoniata da quel piccolo capolavoro che è Hiob (1930): allontanatosi dall’ideologia socialista, lo scrittore e giornalista di origini ebraiche si attesta su posizioni sostanzialmente conservatrici e filo asburgiche. Hiob non è ambientato in Austria, bensì nella periferia dell’impero zarista. Il protagonista è un docile e devoto docente ebreo, Mendel Singer, che a causa delle tragiche vicende della famiglia è portato, novello Giobbe, ad allontanarsi furiosamente da Dio, per poi, a seguito di un inaspettato miracolo, riavvicinarvisi. Gli spunti autobiografici sono evidenti, così come il fatto che dietro il farraginoso impero russo si celi il volto dell’Austria-Ungheria.
Il romanzo affronta diversi temi, da quello, per l’appunto, di natura religiosa, a quello già indagato della guerra come forza sovvertitrice del mondo – e che infatti colpisce duramente e tragicamente la famiglia Singer. Il rapporto con le istituzioni imperiali resta sullo sfondo, in filigrana, per quanto rilevante all’interno del romanzo. L’opera, però, in cui Joseph Roth affronta direttamente il tema del finis austriae è quello che è riconosciuto come il suo capolavoro assoluto, ovvero Radetzkymarsch. In questa “epopea” – come la chiama giustamente Magris – Roth ripercorre le vicende della famiglia Trotta dalla battaglia di Solferino, a seguito della quale la famiglia entra nelle grazie della corte di Vienna, fino alla fine della Prima guerra mondiale, quando la stirpe si spezza nel fango delle trincee. Alle vicende della famiglia – anche in questo caso, originaria della periferia – si intrecciano le fortune e le sorti avverse dell’impero asburgico e del suo saggio e devoto sovrano, Francesco Giuseppe. Il testo non si costruisce sul mito dei “bei tempi andati”, ma su un sapiente gioco di luci e ombre, in cui l’accurata descrizione di piccoli dettagli o di ripetute gestualità quotidiane hanno un ruolo importantissimo. Lo stile di Roth aiuta la creazione di scenari altamente lirici: una scrittura altamente originale, che molto deve alla sobria solennità biblica, capace di fare intuire le rarefatte venature emotive nel rigido comportamento di un vecchio ufficiale asburgico, nella parca frugalità della sua vita, nella ricercata ripetitività del suo vivere quotidiano. Roth riesce a far cogliere, contemporaneamente, l’inutilità sociale e la necessità sentimentale che sta dietro le ritualità e i convenevoli di tutti i giorni. Uomini come il capitano distrettuale von Trotta dimostrano un inconfessabile amore nei confronti di quel rigido codice comportamentale che dovrebbero anzi avere tutti i motivi del mondo per odiare, poiché estremamente repressivo. Invece, rappresenta una solida difesa all’impetuoso e distruttivo vortice delle passioni umane, contro la cui impari forza rischierebbero di soccombere. A dominare in tutto il romanzo è quindi un’atmosfera crepuscolare,in cui la rigida società asburgica viene dipinta senza forzati abbellimenti. Non c’è alcun bisogno di indorare la pillola, poiché è la realtà in sé, con le sue penombre, a rendere spietatamente la luminosità di ciò che si è perduto: quella maniacale e impacciata ricerca di ordine anche negli aspetti più insignificanti, rappresenta l’ultima disperata difesa in un mondo che sembra sempre più dissolversi nel caos. Quest’ultimo, rappresentato dalla Grande Guerra, si abbatte sui protagonisti e sulla Storia con la stessa, tragica fatalità presente Hiob.
La dichiarazione d’amore che l’autore dedica al vecchio sogno asburgico non spicca le ali verso un etereo idealismo privo di imperfezioni, ma resta quindi ben ancorato a terra. L’impero non si presenta, quindi, come il regno della perfezione terrena, la Vienna asburgica non è la Gerusalemme Celeste che si contrappone all’odierna città di Dite; piuttosto, è rappresentazione di un passato lirico, di un temperamento diverso e più umano. Roth vede il punto cardine nella tensione verso l’universalità del potere delle istituzioni. L’impero, con la sua aspirazione all’Uno, non nega i popoli nazionali, ma li contiene, preservando tra loro la pace. Anche il popolo ebraico di cui fa parte può così aspirare a una pacifica convivenza. I vari nazionalismi, invece, con le loro forze centrifughe, rompono l’unità, scatenando guerre sanguinarie e scontri tra popoli e razze. Quest’ultimo discorso acquista maggior valore, se visto in relazione alla Grande Guerra, e se legato anche al periodo in cui Radetzkymarsch vede la luce: in Germania trionfa il partito nazional-socialista di Hitler e Roth, che si trovava la tempo a Berlino, è costretto a emigrare a Parigi, dove rimane fine al termine dei suoi giorni. Pure il debole governo austriaco, infatti, nel giro di poco tempo risente degli influssi ideologici del Terzo Reich, gettando le basi per il successivo anschluss. Tutta la Mitteleuropa stava marciando verso la rovina, ridotta oramai a povera periferia priva di importanza. Quello che era stato per secoli il centro del mondo, era diventato un territorio insignificante in balia di avventurieri politici; quale futuro vedere, quali speranze covare? Non restava che contemplare quella calma antica, quel concetto di potere universale che assicurava, solo esistendo, una vita dignitosa e pacifica, una rilevanza mondiale mai più riottenuta. Non restava che contemplare, con sommessa emozione, un’ordinata divisa da ufficiale asburgico, ascoltando una volta ancora le squillanti note della marcia di Radetzky.