La partecipazione del presidente Trump per la prima volta al World Economic Forum di Davos, che ospita ogni anno per alcuni giorni le élite economiche e finanziarie globali, è stata accolta in un clima positivo.
Con una battuta si potrebbe dire che, a fronte dell’elevato costo dei “biglietti” sostenuto dai rappresentanti di imprese e istituzioni finanziarie per accedere al Forum, l’amministrazione Trump abbia voluto non essere da meno, staccando un assegno da 1.500 miliardi di dollari di tagli fiscali per essere applaudita alla sua prima passerella tra quei potenti economici della terra che nel primo anno di presidenza non sembravano aver mostrato particolare apprezzamento per “the Donald”.
In realtà la riforma fiscale approvata a tempi record, presentata alla Camera il 2 novembre 2017 e firmata definitivamente da Trump il 22 dicembre, sembra aver aperto la strada a una fase nuova dell’amministrazione americana.
Dopo il primo vero risultato politico ottenuto da Trump infatti si percepisce un cambiamento, almeno sul piano interno, della stessa impostazione strategica della presidenza, che da una posizione di maggior forza politica appare più inclusiva e aperta a un dialogo bipartisan, come dimostra l’appello all’unità nello Stato dell’Unione, oltre che una nuova narrazione che combina la fase di crescita dell’economia americana e la riforma fiscale nella prospettiva di un “nuovo momento americano” secondo le parole del presidente di fronte alle Camere riunite.
Probabilmente, tra le pieghe dei sondaggi nazionali che riportano una forte avversione per la sua presidenza, Trump ha registrato il salto nel tasso di approvazione del suo lavoro per quanto riguarda l’economia americana in particolare dall’inizio del 2018 e si dispone a sfruttarlo politicamente.
La riforma fiscale, da cui sembra aver origine questo cambio di prospettiva politica, sebbene costituisca il più ampio e profondo intervento sul sistema di tassazione federale americano dal Tax reform act di Reagan del 1986, non sembra nel suo complesso particolarmente rivoluzionaria.
Dal punto di vista dei cittadini contribuenti, oltre a una serie interventi di varia natura su deduzioni, esenzioni e crediti fiscali previsti dal sistema di tassazione dei redditi personali e familiari, l’elemento maggiormente caratterizzante è stata la riduzione di cinque delle sette aliquote fiscali, in media del 2%, con eccezione della prima relativa ai redditi più bassi e della sesta rimasta pari al 35%.
Questa riduzione delle aliquote fiscali è stata accompagnata da un intervento di modifica degli scaglioni fiscali, ad eccezione dei primi due, che è risultato particolarmente significativo proprio per lo scaglione cui si applicherà l’aliquota non modificata del 35%: tale fascia di reddito è stata molto ampliata rispetto al passato, dimezzando la soglia inferiore che la fa scattare e quindi aumentando la tassazione per quelle quote di reddito che ora rientrano in questo scaglione, e elevando di circa un quinto quella superiore, riducendo di conseguenza la tassazione per questa fascia di reddito che oggi vi rientra.
Nel complesso si tratta di un ridisegno del sistema della tassazione dei redditi personali che rimane improntato a una complessiva progressività, sebbene l’intervento di riduzione dell’aliquota più elevata del 2,6% da un lato, l’eliminazione di alcune esenzioni e deduzioni, e l’eliminazione – inserita nel pacchetto fiscale – dell’obbligo di assicurazione sanitaria individuale per le persone non altrimenti coperte introdotto da Obama, con i relativi effetti in termini di sussidi e crediti fiscali, spostino l’onere della riforma sulle persone a più basso reddito e i vantaggi su quelle a reddito maggiore, come evidenziato dalle stime del Congressional budget office e del Joint committee on taxation in risposta a richieste di approfondimento avanzate da Bernie Sanders, che tuttora si batte come alternativa alle politiche trumpiane.
Dal lato dell’imposizione sulle attività produttive, il presidente degli Stati Uniti sta “vendendo” il taglio delle tasse, come dicono gli americani, come la leva per attrarre o fare rimanere le imprese sul suolo americano, per assumere lavoratori americani e per rilanciare gli investimenti.
L’intervento che ha colpito di più l’immaginario collettivo è stato il taglio massiccio dell’aliquota fiscale federale sui redditi di impresa dal 35 al 21%, che ha dato l’idea di una significativa svolta pro-business del sistema fiscale americano.
Forse più che di svolta, si dovrebbe parlare di evoluzione o adeguamento del sistema fiscale americano a quanto avviene nel resto del mondo. Per ciò che riguarda ad esempio l’aliquota del 35% per le imprese (che saliva al 39% includendo le tasse locali e dei singoli stati) era in realtà un’anomalia tutta americana tra i Paesi industrializzati che nel tempo avevano già fatto una corsa al ribasso nell’imposizione fiscale, basti pensare che la media OCSE delle aliquote in questione per il 2017 è di poco più del 22% o che il vituperato sistema di tassazione italiano dal 2017 prevede un’aliquota del 24% sui redditi di impresa.
Diversa e più articolata è invece la natura del cambiamento del regime di imposizione a cui sono sottoposte le multinazionali americane.
Gli Stati Uniti prima della riforma tassavano i profitti di impresa ottenuti fuori dai confini sulla base di quanto previsto sul territorio americano, cosiddetto principio di tassazione su base mondiale, applicando però l’imposizione solo al momento del rimpatrio del denaro da parte dell’imprese attraverso la distribuzione dei relativi dividendi, con la possibilità di differimento del pagamento delle imposte praticamente a scelta delle imprese: si stima un “differimento indefinito” su conti off-shore da parte delle multinazionali per una base imponibile di oltre 2.500 miliardi di dollari nel 2015.
Il pacchetto del presidente Trump ha cambiato in particolare il sistema nella direzione di un sistema di tassazione territoriale, per cui i profitti realizzati all’estero saranno esentati dalla tassazione negli USA e tassati esclusivamente nel Paese dove si svolge l’attività produttiva, come avviene peraltro in Europa, introducendo parallelamente una tassazione una tantum dei profitti realizzati da sussidiarie estere delle multinazionali tra il 1986 e il 2017, con l’applicazione di aliquote del 15,5% nel caso di denaro contante o asset liquidi accumulati all’estero e dell’8% nel caso di profitti reinvestiti all’estero, che potrebbe generare un gettito stimato di 339 miliardi di dollari su dieci anni.
A queste misure si aggiungono per le imprese multinazionali una ulteriore serie di interventi specifici dati in estrema sintesi da una tassazione agevolata dei redditi derivanti da asset intangibili (brevetti, copyright, ecc.) cosiddetta “global intangible low-taxed income”, che rientra nel novero dei regimi patent box applicati anche in altri Paesi OCSE, Italia inclusa, con aliquote che saliranno dal 10,5 al 13,125%; una deduzione specifica per i “foreign-derived intangible income”, ovvero i redditi di imprese USA derivanti dallo sfruttamento delle licenze di brevetti americani o altri servizi all’estero, che di fatto comporta un’aliquota effettiva ridotta al 13,125%; e infine di una “base erosion and anti-abuse tax” che punta a colpire l’arbitraggio delle imprese tra sistemi fiscali.
Queste misure, oltre costare più di 270 miliardi di dollari di nuove tasse nei prossimi dieci anni alle multinazionali americane, sono volte a cambiarne i comportamenti, modificando attraverso la leva fiscale – per dirla con gli economisti – il sistema di incentivi in cui operano. Gli obiettivi della nuova regolamentazione fiscale in particolare puntano a mantenere i diritti di proprietà relativi a brevetti, marchi, ecc. all’interno del territorio nazionale e a creare nuovi asset intangibili negli USA, scoraggiandone il trasferimento in giurisdizioni a minor tassazione, come l’Irlanda ad esempio.
Se questo insieme di meccanismi fiscali sia adeguato allo scopo dell’amministrazione Trump di radicare nuovamente in patria il ruolo delle multinazionali a stelle e strisce oppure se possa determinare una guerra fiscale tra Paesi, da un lato è materia del contendere tra gli esperti, dall’altro dipenderà anche da eventuali reazioni in ambito internazionale: i cinque principali ministri delle finanze europei hanno per ora lamentato formalmente il rischio di mancato rispetto delle regole dell’Organizzazione mondiale del commercio, che peraltro non gode esattamente di buona salute proprio per volontà USA, determinando un dialogo diplomatico con il segretario al Tesoro americano Munchin attualmente in corso.
Sicuramente nell’ottica trumpiana l’impatto sulle multinazionali è importante per dare pienamente corso all’auspicato “Made in America”, in particolare in termini di lavoro e innovazione, visto che queste imprese pur rappresentando meno dell’1% del totale delle imprese, secondo il Council on foreign relations, assorbono il 19% dell’occupazione americana e danno luogo al 74% della spesa in ricerca e sviluppo.
Anche le altre misure di riduzione delle aliquote finora considerate si rivolgono a un sottoinsieme delle imprese americane, ovvero a quelle identificate come “corporations” di tipo C (in cui rientrano anche le multinazionali) che sono soggette alla tassazione dei redditi di impresa e che costituiscono soltanto il 6% delle aziende a stelle e strisce e l’11% del gettito fiscale federale.
Meno evidente, soprattutto nel dibattito internazionale, è l’eventuale effetto della riforma Trump su tutte le altre imprese americane, per le quali i redditi d’impresa sono tassati secondo le aliquote personali dei proprietari delle imprese medesime, cosiddetti pass-trough businesses, che costituiscono la stragrande maggioranza del tessuto produttivo e commerciale americano e che impiegano la maggioranza dei lavoratori. Queste imprese infatti beneficeranno, in una sintesi semplificatrice, di una deduzione fiscale del 20% sul reddito di impresa sottoposto alla tassazione individuale dei proprietari delle imprese, con un intervento quindi chiaramente volto a parlare all’America profonda delle medie, piccole e piccolissime imprese.
Più risalto ha infine avuto l’introduzione nel sistema fiscale per le imprese della completa e immediata deducibilità del costo di nuovi investimenti, che nelle intenzioni dell’amministrazione americana dovrebbe incentivare significativamente gli investimenti, ma che ha incontrato anche giudizi contrastanti che sono stati estesi all’insieme del piano di Trump.
Il dibattito negli Stati Uniti è stato infatti, seppur concentrato, fortissimo, a colpi di lettere e contro lettere pubbliche, di stime divergenti sulla crescita del PIL dovuta agli stimoli della riforma fiscale, difficilmente valutabili vista la portata della riforma che potenzialmente può modificare comportamenti individuali e collettivi, oppure di allarmi sulla crescita del già rilevante debito pubblico USA a seguito dell’incremento del deficit dovuto al taglio delle tasse, che il Congressional budget office individua in 1.455 miliardi di dollari in dieci anni, senza contare le valutazioni sugli altri effetti sul complesso del sistema americano, in particolare sull’accentuazione delle disuguaglianze, a causa di una redistribuzione a favore dei più ricchi della riforma che appare innegabile.
Certo è che se questa riforma di chiaro stampo conservatore, alla fine dei conti, beneficiasse davvero almeno nel breve termine il sistema produttivo nazionale americano aumentandone la competitività, come alcuni analisti e associazioni di imprese sostengono, oppure beneficiasse essa stessa del plauso generale ad un’economia in crescita accompagnato anche da annunci di aumenti salariali, entrambi non necessariamente dovuti al taglio delle tasse, si aprirebbe per Trump un nuovo momento reaganiano. E questo potrebbe non essere positivo né per gli USA né per quei Paesi, in particolare occidentali, che ancora non si raccapezzano tra uno stato sociale molto ammaccato a furia di tagli, anche per far fronte al mantra della riduzione delle tasse, e la richiesta pressante di protezione da parte della maggioranza di cittadini indeboliti economicamente, spaventati verso il futuro e arrabbiati per disuguaglianze non giustificabili.