Ore 18, salone del Nazareno. Deputati e senatori aspettano soltanto la scintilla. Sanno che Franceschini ha trascorso l’intero pomeriggio in Transtlantico, catecchizzando chiunque gli capitasse a tiro. “Ma lo sapete che in Europa sperano che ci sia dentro almeno Berlusconi, per temperare gli effetti di un eventuale esecutivo grillo-leghista? E se invece prosegue lo stallo, noi non possiamo soltanto dire “no, no, no”. Se tra un mese veniamo chiamati alla responsabilità per il bene del Paese, che facciamo?”. È quel governo del Presidente che il ministro non ha voglia di escludere. Dirà più o meno le stesse cose di fronte ai gruppi, qualche ora dopo. “Lega e cinquestelle alleate eleggerebbero il prossimo presidente della Repubblica e vincerebbero tutte le elezioni regionali. Nessun problema, per voi?”. Domanda retorica, perché l’offensiva della “corrente di governo” è ufficialmente partita.
Renzi è lontano da quella sala. I suoi fedelissimi, però, lo aggiornano in tempo reale su WhatsApp. E lui ordina il contrattacco. Matteo Orfini picchia durissimo, forse come mai in passato. “Con i cinquestelle non si può proprio parlare – lo insegue Anna Ascani – perché sono fuori dallo spettro della democrazia rappresentativa”. Ma è solo l’antipasto. Quando Francesco Boccia teorizza un accordo organico con i grillini, chiede la parola Ettore Rosato. “Pur di avere nostri voti per fare il premier, Di Maio sarebbe disposto a votare qualsiasi cosa gli proponiamo, anche vietare l’uso del web!”. Risate, applausi, mugugni.
È come se da un corpo a corpo i duelli si moltiplicassero. In sala cala il gelo. E Martina, in mezzo, non riesce a tenere insieme due mondi che lavorano ormai con schemi diversi e lottano entrambi per la sopravvivenza. Si alza Graziano Delrio, rinfodera le aperture di poche ore prima e si scaglia contro Franceschini: “Dario, ti rendi conto che quella di Di Maio è una proposta trasformistica e di potere?”. Ormai il rubinetto del malcontento è aperto. E quaranta giorni dopo la batosta, sgorga fuori il risentimento. “C’è un proccupante deficit di classe dirigente nelle regioni in cui si vota”, avverte Piero Fassino. Ed Enza Bruno Bossio: “Abbiamo provato a dare risposte su tutto, ma senza trasmettere un sentimento di fiducia nel futuro”.
È soltanto il primo round. E quando tutto finisce, i soldati semplici abbandonano storditi la sala. Sanno che il gong decisivo suonerà in assemblea nazionale, quella convocata per il 21 aprile. Il bivio, a questo punto, è soprattutto di Renzi. I suoi, da Graziano Delrio fino a Matteo Richetti, Ettore Rosato e Debora Serracchiani, spingono per un congresso lampo, in autunno. E comunque entro febbraio 2019, se Martina fosse disposto ad accettare un nuovo incarico a tempo, che nello statuto non esiste ma politicamente è praticabile. Il problema è che il reggente per ora dice no e punta almeno a scavallare le Europee.
E allora il Giglio magico torna all’ipotesi originaria, al reset delle cariche in assemblea e alle primarie entro il 2018, accompagnate dalla reggenza di Orfini. In fondo, è la linea proprio del Presidente dem: “Se in assemblea non c’è una buona collegialità su un segretario che tira avanti per un po’, fino al congresso- spiega – immagino che vengano ritirate le candidature e si proceda con le primarie”.