Il punto/COMMENTI
Ora la domanda riguarda l’immediato futuro. Quanto peserà lo psicodramma bancario sul destino elettorale di un Pd che ha un disperato bisogno di risalire la china nei sondaggi? Di fronte alla commissione d’inchiesta, Ghizzoni ha parlato il linguaggio dei fatti, senza enfasi e senza amnesie di comodo. Proprio questo stile asciutto ha reso significativa e in un certo senso definitiva la sua audizione.
Non solo ha confermato il famoso passo del libro di de Bortoli, ma ha descritto con scarne pennellate il quadro di un piccolo gruppo di potere piuttosto provinciale eppure proteso verso i propri obiettivi con spregiudicata determinazione.
Questo gruppo di potere rappresenta oggi il vertice del principale partito italiano, l’asse del centrosinistra. Un partito la cui crisi di consensi non è cominciata adesso: ha vissuto altre stagioni e conosciuto più di un insuccesso, dalle regionali alle amministrative fino alla disfatta del 4 dicembre 2016. È proprio la sconfitta referendaria, mai davvero analizzata e anzi rimossa, l’origine dei guai presenti.
Il conflitto d’interessi oggettivo e l’agire opaco in difesa della banca del territorio sarebbero stati perdonati per opportunismo a un manipolo di vincitori, viceversa diventano peccati mortali quando a occupare la scena sono i perdenti. L’arroganza si accetta da chi è forte, ma il debole arrogante non va lontano.
Quindi l’interrogativo che ci si pone riguarda la capacità del gruppo dirigente del Pd di essere tale quando mancano due mesi e mezzo alle elezioni. È chiaro che occorre un’iniziativa, un colpo d’ala, la cosiddetta “mossa del cavallo”.
Un’idea o un gesto che scomponga le carte sul tavolo e chiuda la bocca ai critici. E soprattutto che recuperi il rapporto con la pubblica opinione. I tempi per riuscirci sono molto stretti, forse troppo. E non c’è dubbio che il fronte avversario – dai Cinque Stelle alla sinistra di Grasso, fino a Salvini – desidera che nulla cambi di qui al 4 marzo. Vale a dire che Renzi continui a dichiararsi vincitore del duello su Banca Etruria e Maria Elena Boschi insista a non prendere nemmeno in considerazione l’ipotesi di lasciare.
Un Pd chiuso all’angolo, dominato da un vertice prigioniero di una dimensione irreale: ecco il copione perfetto per una campagna elettorale a buon mercato.
Qualunque altra soluzione, a cominciare da un passo indietro di Boschi in nome del senso di responsabilità, sarebbe un indizio di riscossa che i Di Maio e i Salvini, o i “Liberi e Uguali”, accoglierebbero con qualche rammarico.
Ma al momento possono stare sereni. Per quanto il Pd sia inquieto al suo interno e viva con crescente preoccupazione la corsa verso le urne, Renzi ritiene di poter ancora arroccarsi e controllare il gioco.
Fino a quando, non si sa. Certo, d’ora in poi tutto si fa complicato: in particolare la scelta dei candidati, l’equilibrio fra gli amici del segretario e le altre correnti, da Franceschini a Orlando. Renzi si è indebolito, difficile che possa decidere in solitudine o quasi come ai tempi d’oro.
D’altra parte, se il Pd viene percepito solo come un gruppo di potere, la caduta negli indici di gradimento potrebbe accentuarsi in forma drammatica.
Invertire la tendenza richiede fantasia e un’inedita volontà di rivolgersi agli italiani con realismo. Con ogni probabilità occorre puntare su Gentiloni in modo più esplicito, ben sapendo che un tracollo elettorale del Pd finirebbe per compromettere senza appello le possibilità che il premier resti a Palazzo Chigi.
Non solo ha confermato il famoso passo del libro di de Bortoli, ma ha descritto con scarne pennellate il quadro di un piccolo gruppo di potere piuttosto provinciale eppure proteso verso i propri obiettivi con spregiudicata determinazione.
Questo gruppo di potere rappresenta oggi il vertice del principale partito italiano, l’asse del centrosinistra. Un partito la cui crisi di consensi non è cominciata adesso: ha vissuto altre stagioni e conosciuto più di un insuccesso, dalle regionali alle amministrative fino alla disfatta del 4 dicembre 2016. È proprio la sconfitta referendaria, mai davvero analizzata e anzi rimossa, l’origine dei guai presenti.
Il conflitto d’interessi oggettivo e l’agire opaco in difesa della banca del territorio sarebbero stati perdonati per opportunismo a un manipolo di vincitori, viceversa diventano peccati mortali quando a occupare la scena sono i perdenti. L’arroganza si accetta da chi è forte, ma il debole arrogante non va lontano.
Quindi l’interrogativo che ci si pone riguarda la capacità del gruppo dirigente del Pd di essere tale quando mancano due mesi e mezzo alle elezioni. È chiaro che occorre un’iniziativa, un colpo d’ala, la cosiddetta “mossa del cavallo”.
Un’idea o un gesto che scomponga le carte sul tavolo e chiuda la bocca ai critici. E soprattutto che recuperi il rapporto con la pubblica opinione. I tempi per riuscirci sono molto stretti, forse troppo. E non c’è dubbio che il fronte avversario – dai Cinque Stelle alla sinistra di Grasso, fino a Salvini – desidera che nulla cambi di qui al 4 marzo. Vale a dire che Renzi continui a dichiararsi vincitore del duello su Banca Etruria e Maria Elena Boschi insista a non prendere nemmeno in considerazione l’ipotesi di lasciare.
Un Pd chiuso all’angolo, dominato da un vertice prigioniero di una dimensione irreale: ecco il copione perfetto per una campagna elettorale a buon mercato.
Qualunque altra soluzione, a cominciare da un passo indietro di Boschi in nome del senso di responsabilità, sarebbe un indizio di riscossa che i Di Maio e i Salvini, o i “Liberi e Uguali”, accoglierebbero con qualche rammarico.
Ma al momento possono stare sereni. Per quanto il Pd sia inquieto al suo interno e viva con crescente preoccupazione la corsa verso le urne, Renzi ritiene di poter ancora arroccarsi e controllare il gioco.
Fino a quando, non si sa. Certo, d’ora in poi tutto si fa complicato: in particolare la scelta dei candidati, l’equilibrio fra gli amici del segretario e le altre correnti, da Franceschini a Orlando. Renzi si è indebolito, difficile che possa decidere in solitudine o quasi come ai tempi d’oro.
D’altra parte, se il Pd viene percepito solo come un gruppo di potere, la caduta negli indici di gradimento potrebbe accentuarsi in forma drammatica.
Invertire la tendenza richiede fantasia e un’inedita volontà di rivolgersi agli italiani con realismo. Con ogni probabilità occorre puntare su Gentiloni in modo più esplicito, ben sapendo che un tracollo elettorale del Pd finirebbe per compromettere senza appello le possibilità che il premier resti a Palazzo Chigi.
La Repubblica – Stefano Folli – 21/12/2017 pg. 42 ed. Nazionale.