- Dopo aver proclamato nel 1990 la sua volontà di dar voce ad un «fascismo del 2000» , Gianfranco Fini colse l’assist di Berlusconi per passare da un’opposizione marginale e inefficace al governo.
- Non ci fu, in quell’operazione, nessun travaglio sincero, nessuna eco di quella faticosa ricerca di distinzioni fra gli ideali, le illusioni, gli errori, le “deviazioni” del comunismo che il Pci aveva condotto all’indomani della caduta del muro di Berlino.
- Per un curioso paradosso è stato proprio il desiderio di rinnegare, piuttosto che di superare, il fascismo da parte di chi a lungo se ne era proclamato erede a gonfiare le fila della compagine dei suoi nostalgici.
Sciogliere Forza Nuova, come propone il Partito democratico? Estendere il provvedimento a tutti i gruppi neofascisti, come vorrebbe Conte a nome dei Cinque stelle? Non farlo, perché potrebbe comportare una «sindrome della persecuzione», come ipotizza il giurista Michele Ainis, o conferire l’aureola del martirio ai militanti del movimento, rafforzandone l’attrattiva fra i simpatizzanti, come è arrivato a dire uno dei più acerrimi nemici dell’estrema destra, il giornalista Guido Caldiron? O evitare di farlo semplicemente perché i colpiti dal provvedimento si ritroverebbero immediatamente sotto un’altra sigla, un altro sito web, altre sedi, come si fa notare da varie parti?
Oppure… sciogliere nell’acido tutti i suoi militanti, come si legge in queste ore sulle pagine di Facebook di avversari non proprio animati da spirito gandhiano, che in alternativa suggeriscono di incarcerarli in blocco o deportarli in qualche isola deserta?
Il dibattito politico-intellettuale è aperto, da quando l’irruzione vandalica nella sede della Cgil ha fatto gridare al «ritorno dello squadrismo» e offerto nuovi argomenti a chi, già da anni, evoca lo spettro di una rinascita di un ritorno agli «anni bui» del ventennio in camicia nera. E, qualunque siano le decisioni che la magistratura o il governo assumeranno, promette di non chiudersi presto.
Se affrontate in un’ottica di (qualunque) parte, le questioni riemerse a seguito delle violenze del 10 ottobre rischiano di portare a monologhi o a dialoghi fra sordi. Ma se l’osservazione si sposta su un’analisi più fredda e obiettiva, l’evento occasionale può offrire spunti a considerazioni meno affrettate e parziali su un fenomeno – quello del neofascismo – che attraversa la scena politica da 76 anni e non pare ancora aver esaurito il suo ciclo vitale. E che quindi appartiene a pieno titolo alla storia dell’Italia repubblicana ed obbliga, per farci i conti, a uno sforzo analitico che punti ad individuarne i motivi di persistenza, la reale consistenza, le varie manifestazioni, le sfaccettature, le contraddizioni.
Questo lavoro è stato iniziato nel 1987 da Piero Ignazi con il suo libro Il polo escluso, dedicato alle vicende del Movimento sociale italiano, e proseguito da vari politologi e storici, fra cui Roberto Chiarini, Paolo Nello, Giovanni Tassani, Dino Cofrancesco e chi scrive queste note, ma ha avuto un percorso difficile, per le frequenti interferenze esercitate sulla ricerca da preoccupazioni politiche, tanto che, dopo il periodo di curiosità per l’argomento coinciso con il ritorno della destra a ruoli di protagonismo a metà anni Novanta, si è riaperta quella stagione di «pamphlettistica apologetica o distruttiva» che Ignazi aveva deplorato. E sulle evoluzioni più recenti dell’area neofascista si sono accumulati molti più contributi ispirati all’ideologia della “democrazia militante” che studi basati su quella libertà dai condizionamenti delle proprie convinzioni e dai connessi pregiudizi di cui Max Weber ha fatto la pietra miliare delle scienze sociali.
Questa carenza di equilibrio si riflette sulla discussione odierna. Sulle cause che hanno portato sulla cresta dell’onda mediatica un gruppo dalla consistenza ristretta, che solo a Roma è in grado di portare in piazza una qualche forza d’urto e che – è opportuno ricordarlo – nel 2018 ha raccolto, in coalizione con il Movimento sociale-fiamma tricolore, lo 0,39 per cento dei voti, nessuno si è pronunciato, se non per riferirsi all’infiltrazione in fenomeni di protesta suscitati dalle conseguenze della pandemia.