uno strano 2 luglio
Roberto Barzanti
Il gesto più schietto e spontaneo dello strano due luglio senese 2020 l’ha compiuto un Jacopo selvaiolo, raffigurando sulle lastre del Campo, giusto davanti all’ Entrone, un arco di tufo dove erano posati i barberi delle Contrade, quasi a formare un gioioso arcobaleno. Così anche nel giorno del Palio non corso la terra in piazza è stata stesa: un arco breve, lieve come una carezza, a simbolo di una continuità che non sopportava dimenticanze. E atto umile (da humus, terra appunto) che è sembrato segnalare quell’archeologia della memoria dalla quale ciclicamente riemergono i protagonisti della festa. Il rischio che l’insopportabile vuoto venisse riempito da qualche trovata di dubbio gusto era temibile. Ma nessuno ha osato infrangere una pungente malinconia. Solo l’irruzione della banda che apre il corteo ha fatto risuonare nella conchiglia semideserta note dell’inno che avrebbero accompagnato la lunga sfilata. Ma non era in costume — la citazione sarebbe stata fuori luogo — vestiva panni quotidiani e marciava in commovente baldanzosità. L’arcobaleno appena accennato manifestava auspici di pacificante ripresa. E il motto che vi era inscritto («E Siena trionfa immortale») era la consueta giaculatoria con cui Silvio Gigli, quando ancora la televisione non aveva catturato la nostra sete di notizie in simultanea, chiudeva verso le 22 la sua affannosa cronaca in differita della carriera. E noi ragazzi la immaginavamo al passato prossimo rivivendo emozioni non direttamente provate. Era come decifrare dai dettagli di un messaggio vocale una vicenda leggendaria. Conteneva una parola assai impegnativa: «immortale». Che si attagliava perfettamente ad un rito che sognavamo destinato a infrangere le barriere del tempo. Ed è stata proprio la gabbia del tempo, entro la quale sopravvive una tradizione spirituale — o mentale se preferite —, a far constatare che più che un fatto la festa senese è un dispositivo psicologico, una necessità alla quale non si può rinunciare. Una sfida di vitalità che ha consacrato nella sua araldica e nelle sue rivalità il senso di una storia gloriosa. Le immagini dell’antologia diffusa all’ora canonica della disfida hanno documentato momenti salienti dell’ interminabile quarantena. Le riprese dal Campo affollato non consentivano di capire chi stava per cogliere il trionfo. Per una volta tutti primi, tutti eguali. È stata una parabola. L’assenza a suo modo è stata più incisiva e non meno avvertibile della furiosa contesa. Un invito a pensare e ripensare. A dare più spazio ai «fondamenti invisibili», per dirla con Mario Luzi , su cui si basa la nostra vita. Ad attenuare calcoli forsennati e esagitate ambizioni. A ritrovare ritmi e affetti antichi. Il sindaco ha ufficializzato a malincuore la rinuncia ai due Palii; premuto da mille parti, va ripetendo che un Palio straordinario si potrà organizzare quando le condizioni sanitarie lo permetteranno. Forse sarebbe più consono alla condizione che soffriamo dire seccamente che il 2020 sarà un anno privo dei due clamorosi appuntamenti. Non si tratta del resto di una colpa del governo della città. È più dignitosa un’amata rinuncia che un rinvio tecnico subìto a malincuore. L’assenza conferma che attraversiamo un periodo difficile e doloroso. Allora bisogna mettercela tutta per applicarsi con la massima concordia a quanto si può progettare ed è nelle nostre mani. Nella sanità da rinsaldare, nella scuola da ammodernare, nella ricerca scientifica, nella produzione culturale, nei servizi alla persona da mantenere in mano pubblica. E per difendere occupazione e indirizzare investimenti nelle priorità che Siena e la Toscana evidenziano. Il Palio si inscenava quando, dopo le fatiche del lavoro si tirava un respiro di folleggiante sollievo e ci si preparava a nuove stagioni. Stavolta più imprevedibili, solcate da incognite che obbligano a riscoprire quel tanto di consapevolezza comunitaria sopravvissuto — o rafforzato — dalla tempesta che dura.