di Giovanni Bianconi
Gio. Bia.
Anche se prima di finire in una tomba Totò Riina è stato sepolto da una ventina di ergastoli e sigillato al «carcere duro» per quasi venticinque anni, con la sua morte cambiano molte cose dentro la mafia. Quella con il marchio originale di «Cosa nostra», mantenuto anche quando il metodo mafioso s’è esteso a tutto il continente, con organizzazioni «originarie e autoctone» che poco o nulla hanno a che vedere con i padrini siciliani. Muore definitivamente, invece, il metodo mafioso del dittatore corleonese di Cosa nostra, che rivendicava la sua presunta grandezza rispetto agli altri capi, compresi quelli del suo stesso paese divenuto il simbolo della mafia nel mondo; il metodo da cui è scaturita la guerra contro i vecchi alleati e poi contro lo Stato, interrompendo la vecchia convivenza con le istituzioni per provare a imporne una nuova a chi magari non poteva immaginare di trovarsi a fare i conti con un contadino come quello. Con Riina muore una concezione monarchica della mafia, quella del leader supremo e unico che ancora pochi mesi fa, detenuto e malato, si paragonava al direttore della prigione in cui era rinchiuso definendosi davanti alla moglie «un capo come lui», e rivendicava la sua inflessibilità: «Non mi piegheranno… Mi posso fare anche tremila anni, non trent’anni» .
ROMA «È morto troppo tardi, doveva morire cinquant’anni fa», mormora nel suo incorreggibile dialetto siciliano Santino Di Matteo, il pentito di mafia che ha confessato la strage di Capaci e al quale Cosa nostra, dopo le sue prime dichiarazioni ai magistrati, ha rapito il figlio tredicenne Giuseppe, ucciso dopo due anni di segregazione. Un ex mafioso, colpevole di tanti omicidi, a sua volta vittima della mafia che adesso dice: «Sono contento che è morto Totò Riina, così finalmente si chiude un capitolo».
Un capitolo che anche lei ha contribuito a scrivere, con i delitti che ha commesso.
«Certo, perché noi l’abbiamo seguito e abbiamo sbagliato. Ci siamo fidati delle famiglie che gli stavano intorno, come i Madonia, i Ganci, i Brusca, e lui si faceva forza dell’appoggio di questi. Gli hanno lasciato troppo spazio, e lui ci ha rovinato a tutti. Se invece negli anni Sessanta chi lo voleva togliere di mezzo l’avesse fatto…».
Chi voleva toglierlo di mezzo a quell’epoca?
«Giuseppe Ruffino, uno di Corleone che non vedeva di buon’occhio né lui né Calogero Bagarella, quello ammazzato nella strage di Viale Lazio. Riina aveva paura di Ruffino, e evitava di incontrarlo. Poi Ruffino è morto nel suo letto e Riina non ha avuto più ostacoli. Ha fatto arrestare Luciano Liggio ed è rimasto solo lui a comandare».
Ma come ha fatto a comandare su tutti gli altri?
«Perché era ignorante come una capra, ma molto furbo. Organizzava tragedie, metteva tutti uno contro l’altro con le voci che lui stesso faceva circolare, e poi si alleava con uno dei due per ammazzare l’altro. Destinato a essere ammazzato con la tragedia successiva».
E da dove veniva tutta questa voglia di uccidere e togliere di mezzo gli altri?
«Sempre dall’ignoranza, perché lui a volte nemmeno riusciva a capire quello che dicevano le altre persone, pensava che lo prendessero in giro, cosa che lui non tollerava. E decideva di uccidere. Voi parlate sempre di “guerra di mafia”, ma la guerra l’ha fatta solo lui, gli altri l’hanno subita. È stato uno sterminio, non una guerra».
Possibile che tutto, fino alle stragi del 1992, derivi solo da questo?