“Il nostro volo charter dal Marocco a Pescara per salvare i raccolti”

Arrivano i primi 124 stagionali richiamati dalle aziende: “Loro sanno già come si lavora”
PESCARA – Il lavoro arriva volando. Su un charter “pagato dalle aziende”, ma “tanto ce lo tratterranno dalla busta paga, scommetti?”. Sei di sera, aeroporto di Pescara: ecco il Casablanca-Pescara coi primi 124 braccianti marocchini che salveranno la stagione del quinto orto d’Italia, quello che succhia il limo dell’ex lago del Fucino e produce patata e carota Igp e tonnellate di finocchi, di insalata, di spinaci da industria.

Sono braccia, sono soprattutto schiene. “La mia mi fa sempre un male cane. Raccogli, e ti spacchi la schiena. Sono diventato trattorista, e tutto il giorno sbatti sul sedile e ti spacchi la schiena lo stesso”, dice Mounam Benkirrou, 34 anni, papà di due figlie bloccate in Marocco per la chiusura dei voli: “La grande va in seconda media, ma a gennaio a stagione finita siamo tornati in Marocco e rischia di perdere l’anno”.

Ieri è nato il primo “corridoio verde” italiano. Una via protetta per riportare qui i lavoratori stranieri dei campi che hanno ripopolato le campagne da cui gli italiani, inseguendo sogni urbani e un mestiere meno duro, sono fuggiti a gambe levate. Ecco i primi 124 marocchini, operai agricoli stagionali. Eccoli in fila in aeroporto per i controlli, eccoli sui quattro pullman che li portano nel Fucino, nei borghi intorno ad Avezzano. “Nel mio paese, Luco dei Marsi, un terzo degli abitanti è straniero”, dice Luigi Bianchi, un marsicano che partendo dalle terre di famiglia ha costruito un piccolo impero dei trasporti. “Fino a 25 anni fa – racconta – se avevi la terra ci lavorava tutta la famiglia, ma erano patate e carote. Ora gli ortaggi si coltivano con tre cicli l’anno e serve tantissima mano d’opera”. Dovranno fare 14 giorni di quarantena: tutti qui hanno casa, ma Confagricoltura e altre associazioni stanno cercando un accordo col governo per una quarantena di lavoro nei campi, in sicurezza, con riposo in luoghi messi a disposizione dall’azienda.

Chi ha continuato il mestiere come Modesto Angelucci, 29 anni e “duecento ettari a finocchio dal 2012”, conta le ore in attesa dei suoi operai. Trentamila italiani con la crisi del Covid si sono messi in fila sul portale di Confindustria come braccianti, ma “un nuovo operaio va formato, ci vuole tempo e non ne abbiamo”, dice. I suoi dieci arriveranno oggi con il secondo charter organizzato da Confagricoltura sulla stessa rotta. Ce n’è un terzo in programma, e ne stanno organizzando persino dall’India. “Altri 20 dovrebbero arrivare ai primi di giugno dalla Macedonia, formati per la raccolta del finocchio” che si taglia la notte quando è fresco con un colpo preciso e secco, con lame da paura. Devi saper riconoscere quando è maturo, devi tagliare senza finire al pronto soccorso, devi resistere a freddo e fatica. La contropartita è “un’assunzione regolare con i diritti e le assicurazioni, col rispetto della sicurezza del lavoro e una retribuzione da contratto nazionale, con le giornate versate obbligatoriamente all’Inps”.

Rachid Dahhak ha paura. Ha moglie incinta all’ottavo mese, in Marocco. “Siamo in regola col permesso di soggiorno, ma ora rischia di partorire laggiù”. Migliaia di famiglie marocchine vivono di agricoltura nel Fucino da decenni, sono abruzzesi d’adozione, i loro figli “a scuola sono spesso tra i primi”, dice Bianchi. Il Fucino dà lavoro a ottomila operai agricoli. Tremila “stagionali” vivono nei borghi da marzo a novembre. “Cominci come bracciante, poi impari. Io guidavo il trattore, ora anche i Tir. Ho preso le patenti, consegno frutta e verdura nei mercati e a volte lavoro col trattore”, dice Luchab, impiegato alla Ortosol. Ha tre figli che studiano in Italia: “Sono qui dal 1996”, dice. Hanno scoperto che c’era una porzione di vita possibile e l’hanno presa.

“L’agricoltura – dice Stefano Fabrizi, direttore di Confagricoltura Aquila – è vittima delle stupidaggini che abbiamo urlato per anni: è sfruttamento, è difficile, è dura, ci sono gli schiavisti, c’è il caporalato. Quella è la malattia, non l’agricoltura. Hanno criminalizzato il nostro settore ma ci sono migliaia di aziende serie in cui lavori duro ma guadagni il giusto e lavori sempre”. Salah El Safi è in Italia dal 1996. “So fare tutto, dove serve uno esperto eccomi”. “Sono il veterano – dice un altro, in Italia da trent’anni – ma avremmo dovuto fermarci al Nord, lì il sabato non si lavora. Sarebbe ora nascesse un sindacato”.

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