L’epitaffio è nelle parole di Gianluigi Buffon, il primo a presentarsi davanti alle telecamere al termine di una partita destinata a diventare una pietra miliare per il calcio italiano, il km 0 probabilmente, quello dal quale non si può che ripartire. Testualmente: «Abbiamo fallito qualcosa che, anche a livello sociale, poteva essere veramente importante», ha detto il portiere, capitano ieri nella sua ultima gara in Azzurro. Livello sociale: il giorno dopo il fatale pareggio fra Italia e Svezia nel play-off che ha definitivamente relegato la Nazionale alla condizione di spettatrice al prossimo Mondiale in Russia, forse ha senso ripartire da lì, da una frase espressa a caldo e forse passata sotto silenzio, sovrastata dal muto boato della delusione e dal clamore dei processi a un movimento che ha incassato una batosta storica – l’ultima volta in cui l’Italia non si era qualificata ai Mondiali era nel 1958, 60 anni fa – e per il quale ora si chiede un repulisti pressoché totale. E, a tutti gli effetti, sarebbe straordinariamente incoerente se i vertici federali che hanno portato l’Italia sin qui non liberassero il campo. Dopo tutto, è stato lo stesso presidente della FIGC Carlo Tavecchio a sostenere icasticamente che «non qualificarsi sarebbe l’apocalisse» e allora, per assomigliare alle parole che si dicono, solo le dimissioni avrebbero un senso.
Sarebbe tuttavia fuorviante fermarsi a questo, perché appunto sono i due termini utilizzati da Buffon, livello sociale, a meritare un approfondimento capace di andare oltre l’aspetto tecnico sportivo. Anche perché la Nazionale, seppure in anni recenti in maniera un po’ meno vigorosa, soprattutto nel corso dei grandi tornei ha spesso svolto il ruolo di aggregante sociale, in un Paese come l’Italia ormai drammaticamente vinto da logiche di fazione – nello sport come nella politica e in qualsiasi fatto sociale – in cui l’identità di parte abbatte la capacità di confrontarsi riuscendo, magari, a fare sistema pur mantenendo le diverse specificità di vedute. Come tutto ciò che ha alla base l’unità – e il concetto di rappresentativa nazionale traduce in sé stesso le idee di eccellenza e unione – la Nazionale è o dovrebbe essere un invito a parlarsi, ad andare oltre. Un’estate a spiare il Mondiale degli altri crea inevitabilmente meno aggregazione, senza contare che, a proposito di fazioni, vi si arriverà al termine di un percorso elettorale che, già nei suoi prodromi a campagna non ancora iniziata, si annuncia fra i più avvilenti della storia repubblicana.
Il livello sociale citato da Buffon tocca anche le ricadute di tipo economico che la mancata partecipazione al Mondiale avrà tanto sul movimento calcistico quanto sul Paese. Per quanto concerne la Federcalcio, il danno stimato dagli analisti è di circa 12 milioni di euro per la sola assenza dalla fase a gironi, senza contare i bonus che gli sponsor garantiscono nella parte variabile dei contratti, quella relativa ai risultati. L’immagine percepita ne risentirà, così come il posizionamento nel ranking, e il destino è che il fatturato della Nazionale cali nel futuro esercizio verosimilmente di una percentuale non distante dal 20%, anche perché verranno a mancare i milioni garantiti dalle televisioni che si aggiudicheranno il diritto di trasmettere il Mondiale. Le quali, a loro volta, dovranno fare attente valutazioni perché, a fronte di un esborso decisamente inferiore nella definizione dell’acquisto dei diritti (un Mondiale senza l’Italia, sugli schermi delle nostre TV, vale la metà), difficilmente troveranno sponsor disposti a contratti significativi per legare il loro brand a quello di un torneo senza gli Azzurri.
Il tutto senza contare gli effetti sull’indotto: un’estate con l’Italia ai Mondiali porta con sé la conseguenza di un maggiore giro di affari per quanto concerne i consumi, dal merchandising a tutte le iniziative che, in ogni città o paese di medie dimensioni, vengono in genere organizzate in coincidenza con le partite della Nazionale nel torneo più importante, sino ad arrivare al minore gettito fiscale dei consumi stessi e delle scommesse sportive, altro settore destinato a un’estate meno florida del previsto.
Ora il calcio italiano deve ripartire, analizzandosi e cercando delle soluzioni: si parla di vivai, si discute a tratti penosamente dei troppi stranieri nei campionati (invero con posizioni più politiche che di merito), e chissà che, forse, qualcuno non metta finalmente in discussione la legge 586 del 1996, quella che aprì ai club il fine di lucro, assecondando le brame dei presidenti e abrogando l’obbligo di reinvestire gli utili nell’attività sportiva, sino a lasciare ai settori giovanili un misero minimo obbligatorio del 10% degli utili stessi. Fateci caso: l’ultima Nazionale che andò oltre il girone eliminatorio in un Mondiale fu quella del 2006, formata da giocatori che erano tutti cresciuti nei settori giovanili preriforma, quando comunque iniziavano a farsi sentire gli effetti della sentenza Bosman. Bene: quella Nazionale vinse il titolo.
Ma non c’è solo la batosta azzurra e lo sport nostrano edizione 2017 ha di che riflettere e rimboccarsi le maniche: il calcio fuori dai Mondiali, la Nazionale del volley maschile – una delle più decorate del mondo – uscita con una pesante sconfitta ai quarti dell’Europeo, quella della pallacanestro applaudita per un risultato (anche qui: un’eliminazione ai quarti) valutato con più indulgenza rispetto a quanto avrebbe meritato, considerato il percorso piuttosto semplice che aveva portato gli azzurri sino a quel punto. Il tutto – eccole, le logiche di fazione – mentre i club calcistici vedevano come sabbia negli occhi gli stage e le amichevoli delle Nazionali, considerate uno spreco di risorse; mentre il volley al cospetto dell’appuntamento continentale montava una polemica deprimente sulla marca delle scarpe di un giocatore (Ivan Zaytsev) e il movimento della pallacanestro italiana appare, fra i patri confini, sempre più accartocciato su sé stesso.
E così, se in qualche modo lo sport di squadra è lo specchio del Paese, l’Italia s’è persa.