Il governo ottimista su una sponda Ue ma serviranno ancora soldi pubblici

Il ministero dell’Economia confida in una proroga di sei mesi. Banco Bpm si chiama fuori: non siamo interessati Si va verso un altro aumento di capitale: caccia ad un partner privato, altrimenti toccherà di nuovo allo Stato
alessandro barbera
gianluca paolucci
Al ministero del Tesoro si respira «ottimismo»: la proroga della Commissione europea per cedere la maggioranza pubblica del Monte dei Paschi di Siena oltre il termine concordato verrà concessa. Sei mesi, forse qualcosa in più rispetto alla scadenza attuale dell’approvazione del bilancio 2021, in primavera, per arrivare almeno alla fine del 2022.
La proroga servirà per lanciare un aumento di capitale che potrà essere «privato o pubblico», spiega una delle fonti interpellate. Detta più esplicitamente: o si fa avanti un altro soggetto disponibile a sottoscrivere un aumento di capitale, oppure sarà ancora una volta lo Stato a dover intervenire. Il primo caso al momento appare remoto, ed è improbabile che qualche mese in più possa risolvere un problema che si trascina da ormai otto lunghi anni. Ieri Banco Bpm – il cui nome era circolato per partecipare a uno spezzatino con Unicredit – ha smentito il suo interesse e al momento non c’è nessuno disponibile a sedersi al tavolo della trattativa: quella di Mps è una vicenda troppo complessa perché qualcuno accetti di farsene carico a costi inferiori ai sette miliardi ipotizzati da Unicredit.
Non resterà dunque che la seconda soluzione, ovvero l’ennesima l’iniezione di denaro pubblico. Dovrà passare ancora una volta dal giudizio di Bruxelles e probabilmente dovrà comprendere una nuova ricapitalizzazione «precauzionale» (questa la dicitura tecnica) con i soldi del contribuente e il sacrificio del valore delle quote di azionisti e obbligazionisti subordinati. Sarà la seconda volta in quattro anni.
Tutto ciò avverrà nell’ipotesi che la proroga arrivi senza obiezioni. In ogni caso non potrà essere senza condizioni, tenuto conto del fatto che l’Italia è già inadempiente rispetto agli impegni presi con Bruxelles al momento dell’ultimo intervento pubblico del 2017. Non solo: il piano «stand alone presentato in gennaio dall’amministratore delegato del Monte Guido Bastianini non ha mai ricevuto l’avallo della vigilanza europea guidata dall’italiano Andrea Enria.
Che strada verrà percorsa nel nuovo negoziato con Bruxelles e Francoforte è ancora difficile pronosticarlo. Anche perché – così raccontano nel Palazzo – a pesare sulla trattativa fallita con Unicredit ha prevalso il timore che l’operazione potesse far scattare l’accusa di aiuti di Stato. A Palazzo Chigi e al Tesoro non avevano alcuna intenzione di replicare il controverso salvataggio di Popolare di Vicenza e Veneto Banca da parte di Banca Intesa, costato alle casse dello Stato una cifra superiore ai dieci miliardi di euro.
Di certo nel caso della trattativa fra Unicredit e Monte dei Paschi è risultata incolmabile la distanza tra le parti sui termini dell’accordo: secondo quanto ricostruito, il numero uno del colosso milanese Andrea Orcel ha chiesto un aumento di capitale da ben 6,3 miliardi, giustificato dagli ulteriori accantonamenti necessari sui crediti a rischio. Una richiesta formulata a fronte di una valutazione divergente sulla banca senese. Orcel sosteneva che la rete degli sportelli di Mps – capaci di generare reddito per seicento milioni netti annui – valesse al massimo 1,3 miliardi di euro. I tecnici del Tesoro avevano fatto stimare dai propri consulenti una cifra oscillante fra i 3,5 e i 4,8 miliardi. Né c’era un accordo fra le parti sul costo degli esuberi e il personale da ricollocare. Insomma, per dirla in sintesi, il destino di Mps non sembra essere molto diverso da quello di Alitalia: nessuno al di fuori dello Stato è più disponibile a farsi carico delle sue inefficienze.
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