di Cloe Piccoli
Alla Fondazione Prada di Milano Elmgreen & Dragset allestiscono la casa per abitanti smaterializzati
«Questa è una specie di casa del futuro, o meglio è una casa dove essere preoccupati del futuro » riflettono Michael Elmgreen e Ingar Dragset, la coppia di artisti scandinavi, danese il primo, norvegese il secondo, autori di Useless Bodies? mostra che si espande (fino al 22 agosto) in tutta la Fondazione Prada di Milano e che crea, nella miglior interpretazione del loro lavoro, ambienti immersivi, stranianti, inquietanti e corrosivi. Ambienti all’interno dei quali crollano, sotto i colpi di sculture e ironia, tutte le nostre già poche e vacillanti certezze. «È una casa di persone molto ricche, di quelli che volano nello spazio per cercare un altro pianeta su cui vivere, o che hanno già scavato il loro bunker in qualche deserto remoto. Non ci sono finestre, il soffitto è di cemento armato e le pareti sono foderate d’acciaio alto fino al soffitto, tutto molto elegante eglam. La cucina gigantesca di quest’enorme open space è ispirata alle strutture minimaliste d’acciaio riflettente di Donald Judd. Nessuno ci cucinerà mai. Ma l’importante è averla. L’idea di cucina funzionante è così obsoleta» osservano mentre attraversiamo quest’abitazione enorme nell’ala nord della Fondazione Prada che sembra uno showroom. «Oggi la casa non è un luogo intimo, personale e rassicurante, ma un set teatrale per selfie e riunioni Zoom»continuano gli artisti.
Useless Bodies? si interroga sul fenomeno della smaterializzazione del corpo nell’era digitale, in cui la fisicità sembra sostituita da immagini, icone, ologrammi, alias. L’impatto sulla qualità della vita è totale: dal lavoro, alle relazioni sociali, ai rapporti intimi, fino all’identità. Camminiamo in questa casa dove tutto è perfetto, lucido, minimal, persino “l’unità cane”, senza nome, ovviamente, è meccanica. In salotto c’è una parete di celle frigorifero da obitorio da cui spuntano i piedi di un uomo passato a miglior vita. «Con il corpo vengonosmaterializzati temi come vita, amore, morte, congelati i sentimenti, anestetizzato il dolore. In questa cornice minimal ed elegante tutto sembra distante ». Fra un Concetto spaziale, La fine di Diodi Lucio Fontana, una scultura in marmo, After the Lovers di Elmgreen & Dragset, c’è un lightbox con una curiosa riproduzione delQuarto Stato di Pellizza da Volpedo, un’opera desueta, di quando il corpo, individuale e politico, era importante. Altri tempi.
Così come sembra appartenere a un’altra era geologica l’ufficio deserto e abbandonato, installato al primo piano della Fondazione. È fatto di scrivanie, sedie e divisori allineati come un’opera minimal. «Eppure sono passati solo due anni dai primi lockdown della pandemia, ma tutto è diverso » osservano gli artisti. «Anche questo spazio è senza finestre, illuminato dal neon, anonimo ad eccezione di minuscoli souvenir, foto, matite o sticker sui computer. È uno spazio obsoleto. Ora sembra che lo smart working abbia risolto tutti i problemi. E tutti ce ne stiamo a casa con la nostra felpa nella nostra routine. Ma a scapito di cosa? Interazione, comunicazione, corpo, community sono temi finiti? Possiamo fare a meno dei corpi? Diventeremo sempre più immagini bidimensionali? Produrremo di più soli nei nostri appartamenti? Non c’è una sola risposta giusta».
Lasciamo l’ufficio, ripassiamo di fianco all’appartamento, per recarci nelle cisterne dove è stata installata una spa per restaurare quel che resta dei nostri corpi imperfetti. È qui che Elmgreen aggiunge un particolare interessante che tocca il tema dell’invenzione e della narrazione come medium dell’arte contemporanea. «Dimenticavo di dire che qui ci vive un architetto, è un giovane architetto che ha una un sistema di controllo di tutti i nostri feed narcisistici tipo cuore, passi, fortuna, like, e una piantina con tutti i sistemi di controllo e di sicurezza di questo bunker per corpi smaterializzati. È un nipote di quell’architetto che viveva nella casa all’interno del Victoria and Albert Museum a Londra» scherza Elmgreen. Alcune delle opere sotto forma di casa di Elmgreen & Dragset restano scolpite nella storia: da quella dell’architetto fallito a Londra – appunto – a quella del Padiglione nordico alla Biennale di Venezia: la casa per un collezionista gay, aperta, modernista e trasparente. «Abbiamo vissuto a Berlino nei Novanta, ne abbiamo visto tutti i cambiamenti –raccontano – molte persone avevano lasciato le loro case all’est per spostarsi in altre città in cerca di lavoro. Non c’era economia, ma come artista potevi vivere con pochi soldi, quasi niente, potevi occupare case e studi magnifici volendo. Noi che avevamo un’educazione esageratamente scandinava, con un gran senso civico, volevamo a tutti costi pagare un affitto…». Ridono. «E non avevamo nemmeno una galleria d’arte all’epoca, forse non sapevamo nemmeno che bisognasse averla». Esagerano, ma forse no.
Nella spa, fra armadietti, lavandini, abiti sparsi, c’èWhat’s Left?,un’opera di grande impatto realizzata per quest’ambiente altissimo e illuminato a giorno da luce naturale, per cui sembra vagamente più reale degli altri. È un uomo sospeso a una corda da equilibrista con titolo granitico a cui non serve aggiungere altro. «La spa è il luogo dove risolvere il problema del corpo imperfetto, cercare di allinearsi a ideali astratti, What’s Left?». Cosa resta? Si arriva a una piscina anni Settanta vuota e abbandonata. «Le nostre società liberali hanno privatizzato tutto: non ci sono più spazi pubblici, piscine, biblioteche, scuole, il corpo non esiste nella sfera pubblica». Ma c’è una grande eccezione purtroppo dove il corpo, torna in tutta la sua concretezza: la guerra. «La guerra ricorda che la sofferenza è reale. Sono corpi reali che muoiono. Non è un videogioco. Non è realtà virtuale. Non è un’astrazione. È qualcosa di fisico che ci ricorda la nostra mortalità. In questa tragedia siamo positivamente sorpresi dall’impegno emotivo, e dall’empatia che gli europei hanno mostrato nei confronti dei rifugiati ucraini».
Entriamo nel Podium per un’esperienza che attraversa epoche e storia: per mettere a confronto i corpi contemporanei e quelli della scultura classica, quella diSerial Classic di Salvatore Settis e il discorso sul corpo invece di risolversi diventa ancora più complesso e aperto: sono davveroUseless Bodies?