Recentemente ho ascoltato Piero Dorfles in un incontro pubblico. Era – mi pare – all’Autodromo di Imola, non ricordo il contesto, l’Ordine dei Giornalisti regionale invitava gli iscritti all’albo a partecipare, nell’ambito della ‘formazione obbligatoria’. Attendevo sbadigli. Dorfles, invece, con sapido brio e un certo sarcasmo, ha conquistato l’aula, devastando il ‘sistema editoriale’ italiano in poche mosse, accusando ciò che sappiamo da tempo (Julien Gracq pubblica, sul punto, nel 1950, un saggio al vetriolo, La Littérature à l’estomac): il ‘mercato’ pretende la quantità a discapito della qualità; il sistema distributivo e quello librario sono in mano a pochi grandi gruppi editoriali, di fatto egemonici; cronica è la latitanza di lettori forti in Italia; il tramonto dei competenti (critici letterari, scrittori, intellettuali) nei luoghi nevralgici dell’editoria si è ormai consumato, sostituiti da imprenditori, burocrati, gente che sa ‘fare i soldi’, semmai, non libri. Riassumo per difetto: Dorfles, la cui nota Wikipedia ricorda essere pure “personaggio televisivo italiano”, ha capacità oratorie impeccabili, conosce i ‘tempi’, possiede le virtù della crudeltà. Ne conoscevo, appunto, il piglio televisivo, la competenza giornalistica, mi mancava il tratto del saggista. Così, mi sono lettoIl lavoro del lettore (Bompiani, 2021; sottotitolo furbo, “Perché leggere ti cambia la vita”), proprio perché faccio quel lavoro – ritenendolo un piacere. Il libro, orgogliosamente rétro, mi ha ricordato i manuali di Harold Bloom, Il Genio, ad esempio. Qui, però, la filosofia fa spazio a una certa leggerezza, lo gnosticismo al buon senso, a un sovrano elogio della natura profonda del libro:
“Guardando le rovine dei grandi imperi del passato abbiamo una visione parziale, corrotta, smangiata di cosa è stato quel mondo. I libri, invece, se conservati con cura, come e più di ogni costruzione, opera d’arte e monumento, vivono per sempre. Sfidano la caducità del nostro essere e quindi sono l’unica cosa che ci fa sfiorare l’immortalità”.
Il testo si può leggere in più modi: il più semplice è quello di usarlo per costruirsi un canone da comodino. Da Evgenij Zamjatin (Noi), Guido Morselli (Roma senza papa) e P.K. Dick (La svastica sul sole), per la serie “Profezie distopiche”, a W.G. Sebald (Gli anelli di Saturno), Robert Walser (La passeggiata; entrambi nella sezione “Camminare, pensare, scrivere”), André Malraux (La speranza), Thomas Bernhard (I miei premi), è una fiera di delizie. La sezione più gustosa s’intitola “Mielestrazio” (logo desunto da Arancia meccanica, il romanzo più noto di Anthony Burgess, autore che avrebbe bisogno di una autentica riscoperta editoriale): Dorfles vi raduna libri di vastissimo successo che “usano il sentimentalismo senza ironia”. Le mezze stroncature spesso sono spassose; del Piccolo principe è detto:
“Credo che il successo del libro, per i più piccoli, stia nel suo essere senza sfumature, illusoriamente consolatorio, confortante nell’idea che i piccoli siano comunque meglio dei grandi e non debbano preoccuparsi se non vengono compresi”.
Insomma, mi è venuta voglia di contattare Dorfles. Non tutti gli incontri accadono, si sa. Le mie domande hanno irritato Dorfles, forse non ne scorgeva l’ironia, la necessità. In ogni caso, Dorfles ha risposto e questo è l’esito del nostro dialogo. Nelle interviste promozionali, proprio, non riesco. Amen.
Dunque, leggere è un lavoro, una fatica, e non un piacere, diletto sublime e pericoloso… Giustifichi il titolo del suo libro.
Non credo di dover giustificare niente. Leggere è un lavoro, e come tale un’attività per la quale si deve essere preparati. Come per fare il falegname, il marinaio e l’imbianchino. Ogni attività umana, una volta che se ne siano acquistati gli strumenti di base, può essere praticata per arricchirsi, per divertirsi e per guadagnarsi il pane. Ogni attività umana può essere lavoro e divertimento; ma nessuna si può praticare senza competenza ed esercizio. Qui il nodo: che si possa diventare lettori senza progressività, senza nessuno sforzo, può accadere, ma solo in rari casi di particolare talento; come si può dire di chi è particolarmente portato a lavorare il legno, a navigare, a dipingere. Dunque c’è un motivo, per cui non siamo tutti lettori; anzi, in Italia, i lettori sono una minoranza insignificante della popolazione. I non lettori non hanno avuto chi li ha abituati fin da piccoli ad avere dimestichezza con i libri, a leggere testi prima facili e brevi e poi sempre più complessi. A leggere un libro scolastico, un capitolo per verifica, ci arrivano quasi tutti. Guerra e Pace sono capaci di leggerlo in pochi. Chi ha quella competenza, quell’attitudine che rende capaci di leggere senza difficoltà anche testi lunghi e impegnativi, è un lettore. Chi di fronte a un testo di più di venti pagine si arena, si annoia, non riesce a cogliere il progredire del racconto, semplicemente non ha appreso il lavoro del lettore: non sa leggere.
Quello di leggere, d’altronde, è un lavoro che fanno ormai pochissimi. Nota è l’incuria di parecchi giornalisti, che leggono le quarte e scrivono recensioni con consueto scambio di riverenze, omaggi, leccate qua e là. Piuttosto, mi pare che i critici (o meglio: i lettori sapienti, che sanno cosa leggono: che fine hanno fatto?) siano stati defenestrati dagli studi dei colossi editoriali. In effetti, finché vige la regola del mercato, delle copie vendute, in un sistema distributivo monopolistico, come può emergere il giusto genio, il libro sconcertante, che spariglia le carte? Le chiedo di districare l’anomalia del marchingegno editoriale italico.
Il giornalismo culturale è andato corrompendosi, negli ultimi decenni, fino a diventare irrilevante. Ma non è mai stato esente da difetti più o meno gravi. I grandi stroncatori, i critici severi e giusti erano rari anche cinquant’anni fa. Ma il comportamento opportunistico, fatto di scambi di favori e di ricattucci reciproci, sempre esistito, oggi è diventato pervasivo. I premi di cui si parla li vincono gli amici degli amici e, entrati in giuria, restituiscono il favore. Si fa scrivere sul proprio giornale chi recensisce il proprio libro o quello dei clientes; se ne allontana chi ha osato esprimere opinioni critiche. Si recensiscono libri che non si sono letti, alle volte nemmeno sfogliati, raramente capiti. Più che svolgere un ruolo di servizio, il giornalismo culturale persegue l’interesse personale, occasionalmente tenta lo scoop e, se può, alimenta polemiche pretestuose. A complicare le cose è arrivato il predominio del marketing. Chi vende bene è praticamente costretto a pubblicare un libro l’anno, ed è tormentato dall’editore se tarda a mantener vivo il rapporto con i lettori. Chi vince un premio guadagna anche lo spazio di commentatore sui grandi giornali, indipendentemente dalla sua capacità di scrittura pubblicistica. Chi è amico dei dirigenti e dei conduttori di programmi radiofonici e televisivi avrà ampio spazio di promozione su tutti i canali, mentre chi non coltiva amicizie e terrazze non avrà nessun sostegno dalla comunicazione di massa. In definitiva: si recensisce solo chi già vende bene, si tengono d’occhio gli editori che domani potrebbero tornare utili, e si parla con entusiasmo di libri insignificanti, scritti da giornalisti e politici il cui potere, altrimenti, potrebbe danneggiare chi scrive. Ma perché stupirci? C’è forse un comparto della vita pubblica, nel nostro paese, che sfugga a questo paradigma? Non mi pare proprio. Né mi pare che ci sia più chi, con autorevolezza, possa stigmatizzare il sistema di piccola e mediocre mafia intellettuale che domina il panorama culturale. Non mi limito a rimpiangere i Vittorini, i Fortini, i Milano. Guardo e vedo una società nella quale, nel suo complesso, i valori della conoscenza e l’onestà intellettuale sono non solo poco vitali ma, ove carsicamente compaiano, derisi. Se nelle vene della società non scorre il valore della cultura, perché dovremmo trovarne traccia nel suo specchio fedele, e cioè il sistema dell’informazione?
Dal suo libro emerge una specie di controcanto al canone letterario italiano ‘ufficiale’: Flaiano, Morselli, Palazzeschi, Fenoglio, Rigoni Stern, Viganò… Mancano, tra le figurine, chessò, Pasolini, Pavese, Moravia, Buzzati. Io avrei visto bene Malaparte, Berto, Pomilio. Quali ragioni hanno ispirato le sue scelte? E poi, al brucio: come è messa la letteratura italiana contemporanea a suo dire? La legge, le interessa, la ignora?
In un libro di qualche anno fa, I cento libri che rendono più ricca la vostra vita, avevo raccolto i cento titoli che – con un minimo di oggettività – mi sembravano essere i classici più popolari in Italia. Ma nemmeno allora mi ero arrogato il diritto di redigere un canone. Men che meno con il Lavoro, che è dichiaratamente solo una ricognizione sui temi che a me sono sembrati più utili per parlare del valore della lettura; tra i circa ottanta titoli citati non ho volutamente ripetuto quelli presenti nei Cento libri, né ho scelto solo titoli molto noti, anzi. Come detto in introduzione, le scelte sono personali, del tutto soggettive, e sono finalizzate unicamente a un criterio di utilità per lo svolgimento del testo.
Leggo sia per interesse che per mestiere molta della letteratura pubblicata oggi in Italia e raramente la trovo convincente. Meglio alcuni buoni artigiani del giallo di chi tenta i toni alti della scrittura lirica o dei drammi esistenziali. Prevalgono libri inutili, di scrittura sciatta o inutilmente retorica e barocca (le scuole di scrittura hanno colpito duramente), storie personali di totale disinteresse, autobiografie scritte da persone a stento adulte, molta sfiga giovanile e qualche velleità di tratteggiare le contraddizioni del presente. Vero che il classico diventa tale solo col tempo, ma a me pare che in Italia manchino le punte alte, che pure hanno segnato tra la fine del Novecento e gli inizi degli anni Duemila in altre letterature autori come Ian McEwan, Michel Tournier o Mario Vargas Llosa, per indicare pochi nomi probabilmente destinati a durare nel tempo.
Siamo in un’era che vuole decapitare e castrare i grandi scrittori, rei di essere moralmente biechi, straordinariamente ambigui. Strano modo di giudicare i libri: a questo punto (prendo dalle sue scelte) Malraux è un megalomane misogino, Thomas Mann un forbito mentitore dalla sessualità repressa, Graham Greene un cristiano esaltato, Hemingway il cultore della virilità. Boiate, certo. Che tuttavia inquinano le proposte editoriali recenti (appiattite su temi sociologici, eticamente utili alla causa, che producono libri eventualmente vaghi e indefiniti, infine innocui). Come salvarci?
Il politicamente corretto e la cancel culture hanno segnato un drammatico regresso a posizioni censorie e reazionarie come non se ne sentivano da decenni. Per fortuna, per ora, in Italia questa deriva talebana (dire che Malraux è un megalomane misogino o che Omero è un maschilista razzista è come abbattere i budda di Banyan) non ha troppo spazio, se non in pamphlet di ideologismo falsamente progressista. Ma incombono posizioni di estremismo intollerante che rischiano di incidere sulle scelte editoriali di chi, temendo l’ira dei nuovi censori, non stamperebbe più nemmeno Il buio oltre la siepe. Bisognerebbe che il mondo della cultura (se esistesse) lanciasse una forte campagna contro una deriva di irrazionalità antistorica che tende a cancellare trenta secoli di civiltà.
A parte Goethe, se non ho visto male, nel suo repertorio è pressoché assente la poesia. Come mai? La obbligo a redimersi: mi faccia i nomi di tre poeti (o tre libri lirici) a suo dire fondamentali, indimenticabili.
Ha visto bene, e non capisco la domanda. Non c’è poesia, nel Lavoro, perché non me ne occupo. E il Faust non è poesia, è un dramma, è teatro. Se vuole obbligare qualcuno a redimersi chiami un prete: io preferisco la dannazione. Del resto si può parlare di poesia quando se ne è competenti, se ne è forti lettori e se ne ha padronanza. Io amo la poesia, ma queste capacità non le ho. Se invece la domanda è: tutti hanno passione per qualche poeta e anzi, moltissimi scrivono poesie, cosa ne pensa? La risposta è che in gran parte sono dei dilettanti che non meritano particolare attenzione. La poesia è una cosa seria, di altissima concentrazione letteraria e di raffinata distillazione del linguaggio. E io non ho certo gli strumenti per dire quali sono i poeti – moderni – più significativi. Se poi vuole che dica che non si può non conoscere Omero, Virgilio e Ovidio, Dante e Petrarca e così via, non ha che da consultare un’antologia per le scuole. Lì c’è già tutto.
Domanda per giocare. Mi dica: il libro per l’isola deserta; quello da inviare alla donna della vita; quello da regalare a uno studente diciottenne normodotato (cioè, che non ha, come noi, la fissa per i grandi libri).
Il mio (se l’è voluta).