di Massimo Franco
In un solo giorno, Matteo Salvini ha ottenuto molti risultati: non tutti negativi ma tutti controversi. «Per uno che va, dieci entrano», ha annunciato trionfalmente dopo l’ingresso nella Lega di un dirigente lombardo di Forza Italia: un modo, nella sua ottica, per cancellare la defezione del giorno prima di un’europarlamentare del Carroccio. E, senza il timore di irritare gli alleati, ha aggiunto: «Oggi è una bella giornata. Il mio obiettivo è riunire e rinsaldare il centrodestra in Italia e in Europa». E infatti, a ruota ha proposto una federazione tra Ppe, al quale aderisce FI, gruppo dei Conservatori, dei quali fa parte Giorgia Meloni, e sovranisti come Salvini. La reazione, però, è stata gelida. Antonio Tajani, plenipotenziario di Silvio Berlusconi, ha spiegato che non si può dialogare con Marine Le Pen e Alternative für Deutschland, interlocutori della destra euroscettica. E una garbata stroncatura è arrivata dal capogruppo del Ppe, il tedesco Manfred Weber. La risposta del leader leghista è stata stizzita. Ha accusato la Cdu, perno del centrodestra in Germania, di chiedere voti a destra per poi governare con la sinistra; e fatto capire che se domenica perde le elezioni, dovrà rivolgersi ai sovranisti. Con l’aggiunta di giudizi liquidatori su un’Unione Europea che oggi «fa ridere e non conta un fico secco». È parso quasi che Salvini confidi in una sconfitta del partito di Angela Merkel per rimescolare le alleanze europee. Difficile pensare che con affermazioni simili e con una campagna acquisti spregiudicata la Lega possa federare e compattare il centrodestra. Oltre tutto, Salvini mostra una curiosa amnesia sul governo tra M5S e Lega dal 2018 al 2019, e la partecipazione attuale a quello di Mario Draghi che mette insieme la sinistra e gran parte della destra. Forza Italia ha sottolineato il paradosso della conferenza stampa organizzata ieri a Milano dal capo leghista a pochi giorni dal voto amministrativo. I berlusconiani l’hanno vissuta come una provocazione che non aiuterà i candidati a sindaco nelle grandi città. L’ossessione del capo del Carroccio per la competizione nel proprio schieramento ormai è evidente. Non si tratta soltanto dell’assenza di metà dei parlamentari della Lega ieri in Parlamento nel secondo voto sul green pass, il lasciapassare dei vaccinati contro il Covid: è stata bassa anche la partecipazione di FI. A colpire è stato il commento di Salvini. «Siamo in democrazia, non in un regime. I parlamentari sono liberi», ha detto, riproponendo i sospetti su una Lega che accarezza la sottocultura ostile alle vaccinazioni: anche in contrasto con i propri governatori e ministri. L’ennesima ambiguità, che ingigantisce l’ipoteca di Giorgia Meloni su ogni mossa di Salvini.