di Stefano Bucci
Greenaway, Kentridge e Straub a Venezia: omaggio alla nostra arte antica e insieme sperimentale
Un omaggio all’Italia, anzi tre: tra i diciotto contributi d’artista che il Padiglione Italia della prossima Biennale, curato da Vincenzo Trione nei Giardini (ex) napoleonici, ha riunito in occasione della mostra Codice Italia ce ne sono tre molto particolari. Sono quelli firmati dall’inglese Peter Greenaway (1942), dal sudafricano William Kentridge (1955) e dal francese Jean-Marie Straub (1933), maestri stranieri da sempre felicemente sedotti dalle suggestioni e alle aspirazioni del nostro Paese. Contributi si affiancheranno a quelli di Alis / Filliol, Andrea Aquilanti, Francesco Barocco, Vanessa Beecroft (italiana, oggi cittadina americana), Antonio Biasiucci, Giuseppe Caccavale, Paolo Gioli, Jannis Kounellis (greco, ma ormai romano di adozione), Nino Longobardi, Marzia Migliora, Luca Monterastelli, Mimmo Paladino, Claudio Parmiggiani, Nicola Samorì, Aldo Tambellini (italiano, da tempo trapiantato negli States).
A Greenaway, Kentridge e Straub è stato dunque affidato il compito di lanciare un’occhiata in qualche modo diversa su un modo di fare l’arte unico o quasi (quello italiano) che in pratica da sempre incrocia le radici di un passato talvolta ingombrante e la voglia di sperimentazione, l’arte classica e le nuove forme di espressività. Idealmente in bilico, come spiega Trione, tra Remo e Pasolini. Sempre e comunque al di là di anacronismi e nostalgie.
Un concerto armonioso dove i singoli strumenti restano comunque riconoscibili, il manifesto (ideale) di una serietà che l’Italia (e la sua arte) da tempo reclama, una visione «occidentale» della creatività destinato a contrapporsi con quella «più esotica e legata agli universi dell’Africa e dell’Asia»: Codice Italia sarà tutto questo. Mettendo insieme artisti di varia formazione che, servendosi di differenti linguaggi «propongono un’originale declinazione del concetto di avanguardia capace di reinventare i media e, allo stesso tempo, di frequentare in maniera problematica materiali iconografici e culturali già esistenti». Ma in grado anche (e in questo è fondamentale la lezione di Pasolini) «di mettersi in sintonia con gli esiti più audaci della ricerca internazionale e di ritrovare momenti talvolta marginali della storia dell’arte, sperimentando e attingendo a quell’immenso giacimento che è la memoria». E così, accanto ad una serie di opere simbolo assolutamente inedite che abbiano il valore di manifesti di poetica» il curatore ha chiesto ai «suoi» diciotto artisti «di accompagnare i loro lavori con la creazione di inattese staze delle meraviglie, ispirate all’ Atlante della memoria di Aby Warburg».
Cosa hanno fatto, allora, Greenaway (pittore per formazione ma poi sceneggiatore, regista e artista visionario), Kentridge (grande sperimentatore delle nuove possibilità estetiche di antiche tecniche come l’incisione o il disegno) e Straub (cineasta vicinissimo alla Novelle Vague da sempre affascinato dai linguaggi della modernità) per rendere omaggio all’Italia? Greenaway propone «un viaggio attraverso la storia dell’arte, dagli affreschi di Pompei ai dipinti di Morandi, passando per Leonardo, Raffaello e Michelangelo». Da ognuno il regista dei Misteri del giardino di Compton House (1982) e del film-installazione (2007) pensato per far rivivere la Reggia di Venaria Reale «ha estratto tasselli visivi» (libri, mani, sangue, occhi) per ricomporli come in una tavola degli elementi e metterli in dialogo con schermi-spazio dove si intrecciano pittura, cinema, musica e nuovi media.
L’omaggio di Kentridge si sviluppa invece all’interno di una stanza del Padiglione che raccoglie disegni realizzati a carboncino su carte di vecchi registri contabili e collage di figure che riproducono su scala minore il fregio della Colonna Traiana. Si inizia con i disegni preparatori del progetto Triumphs and Laments (concepito per i muraglioni del Tevere, in collaborazione con l’associazione Tevereterno e la Galleria Lia Rumma) proseguendo con una sequenza di figure alte 12 metri (per una lunghezza di circa 550 metri) che evoca un viaggio tra storia e cronaca. Dove si incrociano il bombardamento del quartiere di San Lorenzo durante la Seconda guerra mondiale, i personaggi della Dolce Vita , la peste del XIII secolo, la morte di Remo e quella di Pier Paolo Pasolini (di cui Kentridge ritaglia su una parete esterna alla stanza e per una lunghezza di 7 metri la figura del corpo disteso per terra).
Nella sua prima volta a una Biennale d’arte, Jean-Marie Straub presenta a sua volta un’installazione costruita su tre differenti elementi (immagine, suono, materiali di lavoro) che riflettono sul suo cinema e sul rapporto intenso e prolungato con l’Italia. Il corpus centrale attinge essenzialmente a Lezioni di storia , film realizzato a Roma nel 1972 (rifilmato digitalmente in una sala newyorkese dal regista iraniano Amir Naderi) e più precisamente alle ultime sette delle cinquantasei inquadrature della pellicola. Il tutto in un piccolo cinema che però mette il visitatore in condizione di sentire qualcosa che abitualmente non vede: dialoghi del film e registrazioni in presa diretta per le vie di Roma che raccontano la città o meglio che la fanno udire. Ed è l’ennesimo frammento di questo Codice Italia che la Biennale propone di scoprire, ma che (almeno) in parte è forse già stato felicemente scritto.