tra DaD e smart-working
di Germana Marchese
Il distanziamento sociale, imposto come principale soluzione dell’emergenza, nel post-pandemia torna con prepotenza a porre l’accento sul tema della cura e del benessere psichico delle persone. Tralasciando effetti psicologici collaterali agli addetti ai lavori, in una dimensione sociale dove, nonostante il progresso tecnologico, il funzionamento della famiglia resta perlopiù legato ad un tradizionale sistema dei valori, il fenomeno assume una lettura interessante.
Nello sforzo di sbrogliare la matassa dei problemi che coinvolgono l’intero sistema sociale, un primo dato inequivocabile da cui partire è che in generale, in seguito alla crisi, per recuperare autosufficienza economica ed emotiva bisogna ridefinire nuovi confini, più funzionali e collaborativi, senza aver troppa paura dei necessari cambiamenti. Di solito possiamo verificare che, quanto più i processi di cambiamento sono difficili, eterogenei e partecipati, tanto più aumenta la qualità delle soluzioni proposte.
Non si tratta soltanto di reimpostare discorsi di natura finanziaria e assetti geopolitici ma di allargare l’orizzonte il più possibile su obiettivi più urgenti relativi alla persona, ragionando in termini universali, fino a comprendere lo scopo della nostra vita ed il bisogno di equilibrio nel nostro benessere sociale. In questa prospettiva, l’alleanza tra istruzione e salute assume una dimensione importante, paradigmatica, implicando ipotesi di cambiamento legate alla questione ambientale, al complessivo sistema dei valori ed al mercato del lavoro.
L’utilizzo dello smart working e della DaD durante la crisi sanitaria potrebbe essere declinato in modo costruttivo. Una volta metabolizzato lo stress iniziale, si potrebbe analizzare con cura l’impatto che ha avuto sulle nostre vite. Quali sono gli effetti che ne sono derivati? Su quale parte della popolazione hanno maggiormente inciso? Ci sarà certamente il tempo delle indagini statistiche, della raccolta e dell’analisi dei dati, ma per ora restituiamo alcune impressioni a caldo ricavate dalla prima parte di questa esperienza intensiva.
Il lavoro a distanza, poco normato, spesso svolto attraverso mezzi propri (strumentazione, connessione wifi, working equipments in generale ), ha imposto alla persona una nuova dimensione spaziale e temporale, spesso con un doppio effetto per certi versi claustrofobico e dilatatorio insieme. Ridurre la propria attività lavorativa in spazi spesso ridotti, condivisi ed inadeguati, ha amplificato per molti lo stress dovuto anche alla ininterrotta reperibilità. Una dilatazione del tempo lavorativo alla quale non ha corrisposto quella spaziale e che in generale, ha subito l’effetto disturbante dell’ interferenza domestica e della massima distraibilità.
Il linea generale questo è avvenuto per tutti coloro che hanno resettato in via straordinaria la propria attività lavorativa o di studio nel proprio domicilio, ma, tralasciando per ora il problema della contrazione della socialità e della concentrazione, conviene soffermarsi meglio sull’ampiezza del gap prodotto nei casi in cui si siano sommati fattori aggiuntivi di disagio e fragilità.
Arcinoto che le crisi economiche colpiscano in modo differente i diversi gruppi della popolazione e che di solito abbiano conseguenze diseguali a seconda della posizione dell’individuo nella struttura sociale. Per esempio, un settore eccessivamente femminilizzato di alcune attività produttive potrebbe causare trasformazioni economiche conseguenti da questo singolo dato, anche con riferimento agli spostamenti dei parametri di occupazione e disoccupazione.
Nel nostro caso bisogna osservare che il distanziamento forzato imposto dal sistema non ha tenuto in debito conto l’alto costo che sarebbe gravato sulle categorie più deboli e sulla gestione del doppio ruolo genitoriale, con particolare riferimento alla donna. Sull’esperienza della DaD relativa alla disabilità, categoria debole per eccellenza, conviene soprassedere perché l’argomento è talmente complesso che merita approfondimento a parte. Sul fronte della questione di genere invece, il peso della gestione domestica e della cura, quando si è sommato al carico di lavoro agile, si è trasformato in uno sforzo affatto elastico e piuttosto insostenibile. Ci basta dunque affermare che il lavoro remoto, riducendo la mobilità quotidiana, abbia agevolato il risparmio di carburante impedendo l’inquinamento? A quale costo e chi paga il conto? Che dire inoltre dei rischi per la salute e la sicurezza? In questo caso dovremmo aprire una lunga parentesi sulle rimodulazioni delle misure di protezione e sicurezza sociale e non conviene in questa sede ma, ritornando ai costi, sono stati calcolati quelli dei possibili contenziosi che potrebbero aprirsi in futuro per aziende e pubblica amministrazione?
Non è il caso di approfondire la concomitanza di ulteriori motivi di debolezza cronica, abbiamo infiniti dati sulla precarietà lavorativa femminile o la diseguaglianza di reddito; si sa che le donne sono tradizionalmente più povere degli uomini, pagate meno e che continuano ad avere il problema della discontinuità lavorativa. In alcuni casi la discontinuità è alternata al part-time che purtroppo resta una necessità di fatto e che diminuisce sensibilmente la possibilità di crescere professionalmente.
Se l’incidenza di certe fragilità varia a seconda delle aree del nostro paese, in generale è lecito affermare che certe contingenze possano avere ovunque effetti molto significativi anche sulle scelte di vita futura. In condizioni di fragilità, diventa difficile mettere al mondo più di un figlio, interrompere relazioni problematiche o, nel peggiore dei casi addirittura violente o patologiche e più semplicemente, poter contare su una sufficiente autonomia.
In seguito a questa esperienza, uno stress test a tutti gli effetti, il problema della conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro imporrebbe una seria riflessione che miri alla ricerca dell’armonia e del benessere sociale. Il bonus baby sitter certamente da solo non raggiungerà lo scopo ed è chiaro che, a fronte di misure inadeguate, estemporanee, se ci si sente esclusi dal sistema di protezione sociale, si tende ad investire nel proprio lavoro sempre meno in termini di qualità. Dunque siamo davvero convinti per esempio che la modalità del telelavoro sia sempre smart, che a lungo termine favorisca la crescita della produttività? Di quali categorie esattamente?
Nel nostro caso forse i costi della cura che, insieme ad un alto livello di stress, potenzialmente possono tradursi nella pratica in perdita del lavoro, decurtazione del salario e di conseguenza della capacità contributiva, diventano un boomerang. Si sommano come il prodotto culturale di una comunità che ha bisogno di ripensare se stessa nelle proprie contraddizioni e di sostituire anacronistici clichè con nuovi investimenti, soluzioni più dinamiche e funzionali alla progressiva diminuzione di nuove e vecchie diseguaglianze.