Gli ultimi femminicidi

Come nella sequenza di un film dell’orrore Elena uccisa a martellate dall’ex compagno
MONICA SERRA
CASTEGNATO (BRESCIA)
La prima martellata contro il finestrino della sua auto per rompere il vetro. Poi si è accanito su di lei. L’ha trascinata fuori e l’ha colpita con tutta la forza che aveva. Una, due, tre volte… Finché Elena non è riuscita più a muoversi, a respirare. A quel punto Ezio Gallesi, 59 anni, dieci in più della vittima, si è rivolto a un vicino di casa della donna in dialetto: «L’ho uccisa, chiamate i carabinieri». E accanto al corpo, col martello sporco di sangue sull’asfalto, ha atteso il loro arrivo.
Erano da poco passate le 19, quando Elena Casanova è stata aggredita dal suo ex mentre parcheggiava davanti al cancello di casa, in via Fiorita a Castegnato, cittadina di 8 mila anime nel Bresciano. Operaia dell’Iveco, una figlia di 17 anni avuta da un matrimonio finito da tempo, ex volontaria della protezione civile, impegnata in campagne ambientaliste con i comitati locali, «una signora tranquilla e molto riservata», racconta il sindaco del paese, Gianluca Cominassi. E Gallesi non ha risparmiato alla figlia di Elena, in casa al momento del delitto, nemmeno lo strazio di sentire le ultime urla della mamma uccisa a martellate.
L’ha seguita o più probabilmente, secondo i carabinieri, ha aspettato il suo ritorno davanti alla villetta a schiera di due piani, coi muri gialli e il prato in ordine. Lei era ancora in macchina quando è entrato in azione. Con la sua auto si è piazzato dietro a quella della vittima, chiudendola per non lasciarle via di fuga. Poi è sceso, con in mano il martello che si era portato dietro. Con forza l’ha colpita più volte, fino a ucciderla.
All’arrivo dei carabinieri della compagnia di Chiari, le auto erano ancora in moto in mezzo alla strada. E Gallesi era lì vicino al corpo di Elena, fermo e immobile, con lo sguardo fisso nel vuoto. Subito è stato accompagnato in caserma dove ha atteso l’arrivo del pm di turno della procura di Brescia, Carlo Pappalardo, per l’interrogatorio iniziato nella tarda serata di ieri. Si è fatto arrestare, non ha provato a scappare, ad allontanarsi, a opporre resistenza.
Tra lui ed Elena sembrerebbe ci sia stata una relazione finita da almeno un anno. Un rapporto che però era sempre rimasto un po’ clandestino o quantomeno riservato. Ogni tanto li si vedeva in giro, con lei che portava a spasso il suo cane. Difficile coglierli in atteggiamenti intimi. Poi avevano rotto e sembra che Elena da qualche tempo avesse un nuovo compagno. Probabilmente Gallesi, a sua volta separato e padre di due figli già grandi, «un perditempo» secondo quanto raccontano in paese, «spesso in piazza a far nulla, senza un lavoro fisso e che bazzicava tra i banchetti del Movimento Cinque Stelle», non aveva mai accettato la rottura della loro storia. Non si sa al momento se avesse già provato a perseguitarla, a minacciarla: ai carabinieri del Nucleo investigativo del Comando provinciale di Brescia, diretti dal tenente colonnello Francesco Tocci, non risulterebbero precedenti denunce. L’ultimo femminicidio in provincia di Brescia risale a un mese fa. Ad Agnosine, in Valsabbia, Giuseppina Di Luca, madre 46enne di due figlie di 21 e 24 anni, fu uccisa dall’ex marito Paolo Vecchia, 52 anni, mentre usciva da casa per andare al lavoro. L’ha aspettata sul portone di casa, per colpirla sulle scale con un coltello e un pugnale, e poi consegnarsi ai carabinieri.
Orrore nell’Afghanistan in mano ai taleban “La pallavolista Hakimi decapitata a Kabul”
Giordano Stabile
Prima le hanno cacciate dai campi sportivi, costrette a rinchiudersi in casa. Poi hanno cominciato a cercarle una a una. Per punirle, ucciderle, decapitarle. È questo l’Afghanistan dei taleban per atlete e sportive. Il divieto di praticare sport in pubblico, decretato poche settimane dopo la presa di Kabul, è soltanto la superficie di una repressione implacabile. Il lato oscuro viene tenuto nascosto ma cominciano a emergere storie terribili. Come quella di Mahjabin Hakimi, giocatrice della nazionale junior di pallavolo. All’inizio di ottobre l’hanno scovata e le hanno mozzato la testa. Poi hanno minacciato i famigliari e intimato di non rivelare nulla. Ma alla fine qualcuno ha parlato. Sui social media sono anche apparse immagini macabre. Alla fine una delle allenatrici, sotto lo pseudonimo di Suraya Afzali, ha raccontato tutto al giornale britannico The Independent. Ha spiegato che da agosto i taleban «hanno cercato di identificare le atlete; in particolare quelle della nazionale di pallavolo, perché in passato ha gareggiato in competizioni internazionali trasmesse anche dalla televisione».
Per gli studenti coranici è stato così più facile avere immagini dei volti e scatenare la caccia. La povera Hakimi giocava nel Kabul Municipality Volleyball Club, la squadra della capitale. Soltanto due delle sue compagne sono riuscite a fuggire «prima che i taleban prendessero il controllo di Kabul» lo scorso 15 agosto. Tutte le altre rischiano di fare la stessa fine. Afzali ha confermato che sono in corso perquisizioni «casa per casa». Le più a rischio sono quelle che hanno partecipato in passato a trasmissioni in tivù e hanno dato «interviste». L’uccisione di una di loro è stata confermata anche da Zahra Fayazi, per sette anni titolare nella nazionale. È riuscita a fuggire un mese fa e si è rifugiata in Gran Bretagna. Alla Bbc ha lanciato un appello perché il mondo salvi le sue compagne: «Non vogliamo che altre facciano la stessa fine», ha implorato. Zahra riesce ancora a contattare le atlete rimaste intrappolate nel Paese. «Hanno cambiato casa, si sono trasferite in altre province per sfuggire alla caccia dei taleban –ha raccontato -. Molte hanno bruciato le loro tute, l’abbigliamento sportivo, per salvare se stesse e le proprie famiglie. Sono spaventate a morte e cercano di cancellare tutto quello che ricorda lo sport».
I taleban non hanno ancora proibito lo sport alle ragazze in maniera formale. Ma il vicepresidente della loro potente «Commissione culturale», Ahmadullah Wasiq, ha spiegato che «non è necessario» per le donne fare attività sportiva, in particolare in pubblico. Un semplice consiglio che nasconde una realtà molto più feroce. I militanti contattano le famiglie e ordinano di proibire alle figlie di fare sport, altrimenti «rischiano conseguenze molto serie e violenze inaspettate». Per le afghane è un salto all’indietro non di vent’anni ma di mezzo secolo. Già negli anni Settanta c’erano a Kabul squadre di pallavolo, e poi di calcio, cricket e altri sport. La nazionale di volley è stata fondata quarant’anni fa, poi sciolta dopo la prima conquista dell’Afghanistan da parte degli studenti coranici, nel 1996. Nel 2001, dopo la caduta del regime del mullah Omar, è stata subito ricostituita ma adesso le atlete sono ripiombate nell’incubo. Sono state più fortunate le calciatrici. Le nazionali sono riuscite a fuggire quasi tutte, mentre la scorsa settimana la Fifa e il governo del Qatar hanno evacuato con successo altre cento calciatrici e i loro familiari. I taleban moltiplicano le loro uscite all’estero, ieri erano a Mosca, dopo Doha e Ankara, mostrano un volto conciliante. Ma in patria è un’altra storia.
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