Sorprendenti perché riferite a Giuseppe Levi, il grande biologo di Torino, protagonista di «Lessico famigliare», il libro scritto dalla figlia Natalia Ginzburg: spirito libero, insofferente delle convenzioni sociali e accademiche, che con dispiacere della madre aveva rifiutato il matrimonio ebraico, e non aveva fatto sì che i figli, al raggiungimento della maggiore età, si sottoponessero al Bar mitzvah, la cerimonia che segna la piena assunzione da parte di un giovane dei precetti religiosi dell’ebraismo.
Dalla lettera di Magnes apprendiamo che a Levi veniva offerto un posto di ricerca in un laboratorio di patologia sperimentale «diretto dal Dr. Doljanski che è pronto a fare tutto il possibile per il Professor Levi». Leonid Doljanski, brillante giovane scienziato di origini russe, laureatosi a Berlino, e poi ricercatore in alcuni dei più importanti laboratori europei prima dell’emigrazione, nel 1935, in Palestina, era stato a Torino il 23 settembre 1938, come apprendiamo da una lettera che Levi scrisse due giorni dopo alla sua allieva Eletta Porta. Stupefacente pensare che uno spirito così legato al mondo europeo come Levi (nel 1939 rifiuterà l’idea, suggeritagli da Adriano Olivetti, di trasferirsi in America) potesse aderire alla proposta, che verosimilmente Doljanski gli fece in quell’occasione, al punto da dirsi disposto ad andare «a Gerusalemme per il resto della sua vita». Comprensibile forse, se si pensa che, amareggiato com’era dalla situazione creatasi per lui già prima delle leggi razziali, Levi si era visto privare della sua linfa vitale con l’espulsione «come una serva ladra» dall’istituto di Torino, dove aveva condotto ricerche per quasi vent’anni, facendone uno dei centri di ricerca biologica più importanti del mondo.
All’indomani della firma delle leggi razziali, il 6 settembre, Levi aveva scritto all’ufficio parigino della Rockefeller Foundation dicendosi deciso a non restare più in Italia, e fiducioso della possibilità di profittare in futuro «dell’ospitalità di qualche laboratorio in Francia o in Inghilterra». La prima occasione concreta che si profilò fu però per il Belgio, dove le università avevano deciso di accogliere ciascuna uno scienziato illustre. Levi andò a Liegi il 15 novembre, ma scoprì che il posto era già promesso al farmacologo di Innsbruck Theodor von Brücke. Seppe subito dopo che anche a Gand avevano già promesso il posto «al Prof. Schrödinger, fisico di grande fama».
In questa situazione è comprensibile lo stato di amarezza di questo studioso ormai vecchio (Levi aveva 66 anni), costretto a implorare l’aiuto di colleghi e di autorità accademiche («come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale»); lui che si era prodigato per accogliere nel suo laboratorio negli anni precedenti giovani studiosi in fuga dalla Germania nazista (tra cui i tedeschi Hertha Meyer e Wolfgang Jablonski, e il polacco Henryk Grossfeld); lui che non era certo abituato a chiedere, ospite illustre nei convegni scientifici in cui era invitato in ogni parte del mondo. E appare allora meno stupefacente immaginare come, dinanzi alla proposta che veniva da Gerusalemme, Levi abbia pensato a un certo punto alla possibilità di vivere in Palestina per il resto della vita. Bisogna considerare che, a dispetto del laicismo di Levi, comune in quegli anni a molti esponenti dell’intellighenzia ebraica, furono proprio le persecuzioni a far recuperare l’identità ebraica, sopita con il processo di assimilazione di tanti ebrei italiani nel periodo post-risorgimentale.
Alla fine Levi non andò a Gerusalemme per il concorrere di due circostanze. Da una parte per le difficoltà della Fondazione Rockefeller a finanziare nuove istituzioni, dall’altra parte per la possibilità di una emigrazione scientifica in Belgio creatasi grazie a un grant di 75.000 franchi belgi concesso dalla Fondazione Francqui a Levi come «professore straniero all’Università di Liegi». Egli potrà così rimanere in Europa e creare, a partire dal 1939, un centro per le ricerche su cellule in coltura nel laboratorio di analisi dei tumori diretto da Jean Firket. Trascorse a Liegi due anni, in condizioni via via più difficili, e, oltre a fare ricerca, scrisse numerosi articoli (tra cui uno monumentale di 170 pagine con 136 figure), e infine riuscì, nel 1941, a tornare in Italia in circostanze avventurose. Qui collaborò con Rita Levi-Montalcini nel laboratorio «alla Robinson Crusoe» creato dall’allieva nella sua casa di corso Re Umberto 12, su ricerche ispirate da un articolo del 1934 che Levi stesso le aveva dato da leggere tre anni prima, ottenendo con lei risultati che inizieranno quel cammino di ricerca conclusosi nel 1986 con il premio Nobel assegnato all’allieva per la scoperta del Fattore della Crescita Neurale.
Si potrebbe immaginare che, se Levi fosse andato a Gerusalemme per restarci tutta la vita, forse la storia scientifica della Levi-Montalcini sarebbe stata diversa. E diverso sarebbe certamente stato quel capolavoro della letteratura italiana del Novecento che è «Lessico famigliare».