il caffè
di Massimo Gramellini
Uno dei segnali d’impazzimento del dibattito pubblico è la trasformazione del prosaico ministro Giancarlo Giorgetti in un perfido emissario dell’Internazionale Comunista. Di questo laborioso artigiano lombardo della politica nessuno ricorda una battuta più corrosiva di «ciao, come va?». Eppure, la corrente avanguardista della Lega lo dipinge come un pericoloso sovversivo in combutta con i poteri fortissimi. Francesca Donato, pasdaran del libero contagio in libero Stato, ha appena motivato le sue dimissioni dal partito di Salvini con il fatto che lì dentro non comanderebbe più l’addetto ai selfie, ma il plumbeo Giorgetti. Tra i «No Vax, Sì Dux», come li chiama per celia Bersani, c’è ormai chi parla apertamente di Banda Giorgetti, con il ministro che sussurra a Draghi e nel frattempo tesse la tela al centro, mentre a Nord Est i governatori capeggiati da Zaia diffondono il verbo del marxismo-giorgettismo nei soviet del fatturato.
Ma che cosa avrà mai combinato il placido compagno Giorgetti per meritarsi una fama tanto sinistra? Ha detto: «Finalmente riapriamo il Paese». Con il green pass, certo, ma il traguardo — riaprire il Paese — è lo stesso che reclamavano a gran voce, un anno fa, quelli che adesso lo dipingono come una minaccia e che presto potrebbero ritrovarsi davanti a un trivio: o all’opposizione con Meloni, o in Europa con Giorgetti, oppure al Papeete con Salvini.