di Tamara Baris
La ragazza con la Leica ricostruisce le vicende della vita di Gerda Taro (Gerta Pohorylle: questo era il suo vero nome): una vita ritrovata e rivissuta nelle pagine del romanzo di Helena Janeczek in un lavoro di documentazione fitto e scrupoloso, frutto di anni di passione e ricerca (si vedano anche i ringraziamenti alla fine del libro) che il lettore avverte nella precisione e nel coinvolgimento di ogni pagina, in ogni passo.
La ragazza con la Leica, nonostante lo spirito documentaristico, le ricerche bibliografiche dettagliate, resta però soprattutto un romanzo scritto col cuore, un racconto che non lascia indifferente il lettore, come Gerda non lasciava indifferente chiunque la incontrasse (la foto scelta come immagine di copertina è particolarmente significativa: è impossibile non affezionarsi a quel volto, è raro che non si resti affascinati da quell’espressione determinata e sbarazzina).
Il romanzo di Helena Janeczek è, anche, il racconto dell’Europa e della Germania degli anni Trenta, e della crisi che precipiterà nel nazismo, dell’antifascismo, della nostra Storia passata (che purtroppo ricorda da vicino tante situazioni e drammi della Storia presente), ma è anche la vita di una donna dalla personalità inqualificabile, centro della sua comitiva di amici e studenti politicizzati a Lipsia, poi a Parigi, dei suoi amori e della sua anima. È il racconto della storia di una ragazza morta troppo presto, per inseguire i suoi ideali, a Brunete, il 26 luglio del 1937, falciata da un carro armato, durante la guerra civile spagnola, qualche giorno prima del suo ventisettesimo compleanno: il 1° agosto, un compleanno che, invece, si trasformerà nella data del corteo funebre che la accompagnerà a Parigi in una sfilata di dolore e bandiere rosse.
Compagni
Il romanzo è tripartito: a raccontare la storia di Gerda sono le persone che le sono state accanto, uguali a lei («Nessuno avrebbe potuto espropriarli di quella risorsa che li rendeva uguali, compagni a partire dal modo di stare al mondo che sfidava i nazisti», p. 25). Così: prima conosciamo la storia attraverso Willy Chardack, innamorato di lei, che racconta, filtra, l’amore di Gerda e Robert Capa; poi, a raccontare è Ruth Cerf, l’amica di Lipsia («Con un po’ di fantasia benevola o interessata, lei e Gerda assomigliavano a una Garbo e una Dietrich di provincia. Ma in fondo contava solo che ci fossero trovate», p. 116); e la terza parte del romanzo è affidata a Georg Kuritzkes, ex fidanzato di Gerda, impegnato politicamente nelle Brigate internazionali.
In questa visione una e trina, Gerda viene fuori in tutta la sua interezza: nelle parole della Janeczek il fantasma della Taro ritrova consistenza («bisognava prenderla com’era: sincera sino a far male, affezionata a modo suo, sulla lunga durata», p. 58). Teatrale, affascinante, brillante, lontana da ogni gabbia (lei che in prigione c’era stata davvero), da ogni luogo comune e costrizione, libera di essere una donna mai vittima dei suoi ruoli, totalmente padrona della propria vita e della propria esistenza («Ma lei si era scelta il lavoro e il nome, ed era morta in un incidente stupido e crudele, però in una guerra che, con le sue immagini, voleva vincere per tutti. Era caduta tra i compagni a lottare contro il fascismo, non importa a quale race or people appartenessero», p. 76).
Metà
La Janeczek racconta la vita di Gerda prima di essere qualsiasi altra etichetta attribuita a Gerta Pohorylle dalla storia: Gerda era Gerda, non solo il grande amore, la metà, di Robert Capa (altro pseudonimo scelto e creato dalla Taro, il vero nome di Capa era, infatti, Endre Friedmann); Gerda era una giovane donna che emanava incanto e grazia, ma forte e compatta come la verità, anche di fronte alla morte (prima di morire si preoccupò, infatti, dell’integrità dei rullini e delle macchine fotografiche che aveva con sé).
Gerda Taro, però, era troppo intelligente per prendersi sul serio, per prendere la vita troppo sul serio e, nel ritratto della scrittrice, nelle voci dei suoi compagni e nel ricordo delle loro giornate, c’è anche la sua leggerezza («Ach, Willy, la vita è troppo seria per prenderla sul serio», p. 85): l’immagine di lei è indelebile nei ricordi di Willy Chardack, di Ruth Cerf e di Georg Kuritzkes che ripensano all’amica ogni volta che ne hanno bisogno, tornano a quel passato nitido e insostituibile, per rintracciare un po’ «del suo ottimismo. Della bravura a dissimulare incertezze e delusioni, della facilità a mostrarsi realistica sino al cinismo, pur di non darsi vinta» (p. 207). Perché Gerda è, a distanza di anni, per i suoi amici e compagni trasformati dalla vita, rimasti a osservare la Storia, l’espressione di un passato in cui tante possibilità ancora non erano morte; e il romanzo è, per noi lettori, un antidoto contro il vuoto.
Helena Janeczek riesce ad ancorarsi alla verità storica: trova il punto di incontro tra la Storia e le storie immaginate; rintraccia il vero, lo ascolta, racconta di conseguenza, arriva a far combaciare, quasi in maniera perfetta, due mondi lontani, li fonde, fa parlare quello che è stato, lo racconta perché non smetta mai di essere.
Helena Janeczek, La ragazza con la Leica, Guanda, 2017, p. 333