Delio Cantimori è stato sicuramente uno degli storici più significativi del Novecento e la sua vicenda negli ultimi decenni è divenuta un vero e proprio sottogenere storiografico.
NATO A RUSSI nel 1904 e morto nel 1966, Cantimori continua ad attirare l’attenzione degli storici italiani sia perché la curiosità onnivora e la perspicuità interpretativa gli hanno consentito di dragare l’intero percorso della modernità europea, sia perché la sua biografia intellettuale incarna la complessità, i drammi e il fascino del Novecento. Cantimori porta con sé l’eredità tradita del Risorgimento radicale, per essere quindi attratto nel gorgo del secolo breve: aderisce convintamente al fascismo, ne sposa per un tratto la politica culturale, per poi convertirsi al comunismo e, anche qui, apparentemente, diventa fedele esegeta della linea togliattiana.
Sempre eretico a ogni ortodossia, comunque allineato senza però cedere del tutto al conformismo.
Il suo magistero ha costituito per decenni un modello virtuoso della ricerca storica in cui trovare rifugio per intere generazioni di studiosi. È la ragione per cui molti suoi lavori sono stati ripubblicati, a volte anche ripescandoli dall’oblio, e la sua biografia intellettuale è stata vivisezionata nel tentativo di trovare qualche frammento che consentisse di fissarne con certezza l’identità. Ed è in questo solco che si inserisce anche la felice intuizione di riprendere il Cantimori più trascurato, vale a dire lo studioso del pensiero rivoluzionario germinato in Italia a partire dal 1789. Utopisti e riformatori italiani (Donzelli, pp. 275, euro 28) curato da Lucio Biasori e Francesco Torchiani riporta a nuova vita il testo del 1943, tornando a far brillare la ricchezza dell’immenso laboratorio cantimoriano, come dice Adriano Prosperi nella prefazione.
Il libro presenta anche altri saggi di Cantimori sullo stesso tema e scritti nello stesso periodo: operazione meritoria perché introvabili, ma raccolti in centone senza una troppo persuasiva motivazione che spieghi, oltre il carattere formale, le ragioni di una riflessione «giacobina» che fu però molto più ampia e duratura. Giustamente i due curatori dicono che esiste una linea di continuità molto precisa fra Utopisti e riformatori e gli Eretici italiani del Cinquecento, il capolavoro storiografico di Cantimori pubblicato nel 1939. L’abate Tocci, Enrico Michele L’Aurora, Filippo Buonarroti, Vincenzio Russo, insieme alla folla di uomini e donne che popolò la scena delle repubbliche democratiche nel Triennio rivoluzionario (1796-1799), erano gli eredi ideali del radicalismo religioso degli Eretici (vale a dire i ribelli a ogni disciplina religiosa e i perseguitati da tutte le chiese) che avevano attraversato l’Europa chiusa sul confessionalismo, conquistando «col sangue il diritto di ragionare». Come loro, gli utopisti settecenteschi provarono a imporre una trasformazione religiosa inserendola nell’orizzonte di lotte per la riforma della società e della proprietà.
IL TESTO DI CANTIMORI ha costituito un punto di svolta della storiografia perché iniziò un percorso di ripensamento dell’esperienza giacobina in Italia, letta non più come astrattezza ma come pratica di militanza vissuta e agita, a dispetto del numero dei partecipanti e del loro status sociale. È la riforma sociale quella che interessò i nostri giacobini, una più equa redistribuzione delle ricchezze (da qui il mito della legge agraria) e per farlo erano pronti a richiamare Robespierre anche senza condividerne per intero la strategia. E per una completa rigenerazione auspicavano anche una trasformazione religiosa, assunta non più come semplice richiesta di tolleranza ma sul piano avanzato dei diritti.
Una visione tutta politica della realtà che si staccava definitivamente dal vecchio regime segnato dalle lotte religiose. Come scrive Cantimori a proposito del Circolo costituzionale di Roma sono due le operazioni tentate dai giacobini, ossia gli illuministi entrati in azione, una di carattere militante e propagandistica immediata, l’altra dottrinaria: la negazione di ogni forma religiosa e la volontà di pensare le istituzioni a venire e l’organizzazione politica in chiave socialistica.