di Vittoria Puledda
MILANO — La partita è cominciata. Si gioca tra Roma e Bruxelles, tra i negoziatori del Mef, che hanno il compito di convincere l’Antitrust europeo a concedere più tempo all’Italia per vendere Mps, e la Commissione, che ascolterà le richieste, porrà condizioni, studierà le nuove carte a supporto dell’aumento di capitale da realizzare sul mercato (l’ipotesi più accreditata). In ottica per ora “stand alone”: nessuna altra banca può farsi avanti nell’immediato, accettando condizioni meno favorevoli di quelle chieste da Unicredit.
Il vecchio piano elaborato dall’ad Guido Bastianini – non preso in considerazione da Bruxelles – ipotizzava un aumento da 2,5 miliardi; a suo tempo il Mef aveva messo nei suoi conti fieno in cascina per 1,6 miliardi; secondo le indicazioni ufficiose le richieste delle autorità ammontavano a 3 miliardi in estate. Il punto di partenza sono gli stress test condotti dall’Eba lo scorso luglio: nello scenario peggiore, la banca senese avrebbe avuto indicatore patrimoniale (Cet1) negativo nel 2023; in tal caso, secondo alcune estrapolazioni di analisti, le necessità di capitale sono intorno ai 5 miliardi. C’è però anche lo scenario di base, previsto dall’Eba, e in questo caso le necessità di ricapitalizzazione sarebbero circa 730 milioni.
Probabilmente l’iniezione di mezzi freschi che serve a Mps sarà tra i 3 e i 4 miliardi, non solo per rispettare i requisiti dettati dalle autorità di vigilanza ma anche per presentarsi sul mercato in condizioni accettabili. Che, tra l’altro, prevederanno un numero di esuberi superiore ai circa 2.500 previsti dal vecchio piano, ma forse distanti dalle cifre circolate durante il negoziato con Unicredit (6-7000); insieme a un cambio di management, anche per sottolineare con Bruxelles la discontinuità rispetto alla situazione attuale. C’è poi il nodo delle sofferenze, su cui Amco (il braccio armato del Tesoro) ragionevolmente resterà in partita: a fine giugno i crediti deteriorati (4,2 miliardi) avevano una copertura del 46,9% mentre i 15 miliardi di “stage 2” (il primissimo stadio di disagio) avevano accantonamenti per il 3,2%. Anche quanto si deciderà di procedere con la pulizia concorrerà a determinare l’aumento. Ieri l’Ue ha ribadito la posizione: «L’Italia deve essere all’altezza degli impegni» presi con Bruxelles nel 2017, all’epoca della ricapitalizzazione precauzionale che costò 5,4 miliardi di euro al Paese (e il quasi azzeramento di vecchi azionisti e dei titolari di bond subordinati non retail). Ma ha aggiunto: «Se l’Italia crede che ci siano altri modi per adempiere e per uscire dalla proprietà di Mps, spetta a loro avanzare proposte. Noi restiamo in contatto con le autorità».
Il clima è disteso, anche perché la credibilità di Draghi in ambito internazionale è altissima; altro elemento positivo, il mutato contesto dell’economia. Ma preparare l’istruttoria non è lavoro di poche ore, oltre a dover metabolizzare l’irritazione per la conclusione del negoziato. Una fine che crea un grosso problema su Mps ma anche qualche difficoltà sul lato Unicredit. Non fosse altro per il fatto che il piano industriale – mai annunciato ufficialmente ma atteso dal mercato entro metà novembre slitterà un po’ in avanti, per prendere atto che la gamba Mps non c’è più. La data verrà annunciata domani, con i conti del trimestre, ma sarà comunque entro l’anno. Sempre che la strada Mps resti sbarrata: il segretario generale del sindacato Fabi, Lando Sileoni, non crede «che la situazione sia definitivamente chiusa ». Andrea Orcel, ad di Unicredit, e Bastianini saranno sentiti l’8 novembre dalla commissione parlamentare sulle banche.