Elogio della solitudine

Altro che social e vita di società: l’arte si tempra fuggendo il mondo, coltivando una feroce solitudine. Esempi sparsi, da Rilke a Saigyō, il monaco poeta vissuto mille anni fa.

Nel breve fascio di lettere a Franz Xaver Kappus, pubblicate postume come fossero un oracolo, con il titolo Lettere a un giovane poeta (ora in nuova, sgargiante edizione per il Saggiatore), Rainer Maria Rilke dice, reiteratamente, una sola cosa.

“Solo di questo abbiamo bisogno: solitudine, grande solitudine interiore. Andare-dentro-di-sé e non incontrare nessuno per ore: si deve essere in grado di raggiungere questo”.

Il concetto è variato in diverse formule, analoghe: “Si immerga dentro di sé”; “Ora viva le domande”; “Le opere d’arte sono di una solitudine infinita e niente è meno adatto a raggiungerle della critica”. Tanto Rilke sembra presente, articolato, prossimo, tanto è vasta la distanza che mette tra sé e il suo interlocutore. Rilke non dialoga, vaticina, profetizza, proclama: le sue lettere sono rivolte a tutti e a nessuno; per lo più sono l’esito di un dialogo interiore. Solitudine, in primo luogo, è questo: non avere bisogno di interlocutori, sapersi estraniare, essere un fuoco bianco, assorto, in mezzo a una sala piena di gente. Nulla di sofisticato né di altero: gli occhi, come pietre, sprofondano fino al centro del corpo, e il corpo diventa un falco; chi ci osserva può giudicarci ‘eccentrici’, ma noi ci libriamo, liberi, vediamo dall’alto, olimpici e letali. Di un uomo, pur di non perderci in chiacchiere, sapremmo intuire, da un crisma nella bocca, la delusione, la gioia scabra, il fato che si sbriciola.

Rilke dice al suo allievo – di cui non si occuperà mai più, poi, perché solitudine significa recidere ogni vicinanza – di dedicarsi alla poesia con clamorosa dedizione, incurante dei ‘risultati’. Il poeta non può essere ‘sociale’, uno che sta comodo in società: semmai, è associato ai rapaci, ai raminghi, ai vaghi. Rilke era invitato – e foraggiato – da una vasta schiera di nobili e di mecenati, di cui frequentava le ville – il formidabile castello di Duino, ad esempio – proprio per quella feroce delicatezza. Affabile, gentile, generoso, restava infine una creatura irraggiungibile, intoccabile: capace di silenzi prossimi all’indifferenza. Nelle lettere era fluviale, certo: per far annegare il destinatario, inconsapevole preda.

Leggo lo stesso pensiero di Rilke, pur virato in pianto, in Varlam Šalamov, l’autore dei Racconti della Kolyma: “Per un racconto ho bisogno di silenzio assoluto, di una solitudine assoluta… Ogni singola frase è stata preventivamente urlata in una stanza vuota: quando scrivo, parlo sempre da solo. Grido, minaccio, piango. E le mie lacrime scorrono ininterrotte. Solo alla fine, terminando il racconto o parte di esso, asciugo le lacrime”. Per un artista questa è una lampante ovvietà: si scrive con il coltello, intagliandosi in una solitudine suprema, non priva di cattiveria. Nel 1919 Rilke incontra la figlia Ruth, diciottenne, per l’ultima volta, aveva lasciato la madre (e moglie), Clara, anni prima; non parteciperà al matrimonio della figlia (nel 1922, con Carl Sieber), non conoscerà mai la nipote, Christine; alla famiglia preferisce la reclusione a Muzot, i rapporti fugaci – spesso aleatori, in carne albina – con donne che ne idolatrano il talento, le amicizie – sempre parziali, legate all’arte, non certo a una qualche intimità – con Paul Valéry, Pasternak (padre e figlio), Marina Cvetaeva (ma a distanza). Non fuga ma precipizio statico, d’estasi, in sé, come il sub che sotto una certa quota, senza muoversi, è naturalmente attratto dall’acqua nella sua nera profondità, cardata dalle meduse, sottratto dalla luce.

La radicalità di Rilke mi ricorda quella di Saigyō, il grande poeta giapponese vissuto mille anni fa, che improvvisamente lascia moglie, figlia e mondo, “divenne monaco” e “lieto di spezzare i legami dell’affetto e dell’amore, di stabilirsi nella dimora dell’impavida spontaneità, di abbandonare la polvere del mondo per varcare la porta e inoltrarsi sul sentiero, si costruì una capanna di sterpi sulle pendici dei Monti Occidentali e vi abitò”. Tutta l’opera di Saigyō, il poeta vagabondo – maestro di una generazione di monaci-poeti solitari, di cui il culmine è Bashō –, è improntata all’elogio della solitudine:

“Memoria di me,

che nulla valgo,

vorrei lasciare

come di uno

che fugge il mondo”.

Virtù o viltà, grandezza o debolezza, eroismo o narcisismo? Le cose si amano da lontano, senza patti, e l’arte chiede l’estrema disciplina: non puoi assecondare le velleità d’affetto dei tanti. Rilke ha fatto della poesia un idolo, benché di ogni idolo vada saggiato il lato morbido, quello dello sterminio – per non diventare moribondi, eletti all’io. Per dare il giusto equilibrio all’ebbrezza della solitudine un padre del deserto insegna: “Se vivi in solitudine nel deserto non pensare di fare qualcosa di grande; piuttosto considerati come un cane scacciato dal villaggio e incatenato, perché mordeva e assaliva gli uomini”. Ma la solitudine non si porge, si pratica; fino alla posizione felina, a rendere barbarico l’alfabeto, affini alla morgana.

Quanto ai propri testi: ne siano testimonianza i quaderni, le esplorazioni illimitate, i trucchi verbali e gli scarabocchi simili a un latrato. Bisogna estraniarsi dal sociale e dalla società dei letterati, lasciar macerare i manoscritti, e se la fama capita – come un fato irrichiesto, una ricompensa inaudita – riderne.