Il referendum si è concluso, ma le questioni sollevate restano aperte. Più di prima.
D’altronde, l’esito del voto ha fornito indicazioni diverse, nelle due Regioni coinvolte. Al punto da rendere inadeguata la categoria geo-politica del Lombardo-Veneto, rilanciata in questa occasione. Infatti, in Lombardia ha votato una quota minoritaria degli elettori, per quanto ampia: 38%. Seppure, per la validità del risultato, non fosse previsto un quorum. Richiesto, invece, in Veneto. Dove si è recata a votare una larga maggioranza dei cittadini. Oltre il 57%.
Quasi tutti hanno votato sì. Un «big bang», lo ha definito il governatore Luca Zaia. Il quale, da domani, anzi: oggi stesso, potrà avviare il confronto con lo Stato centrale, cioè, con il governo, affinché “alla Regione del Veneto siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”, come recita il quesito approvato dagli elettori. E lo stesso potrà fare il suo omologo lombardo, Roberto Maroni, “ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 116 (…) della Costituzione”. Nei quesiti referendari non troviamo echi di tipo catalano.
«d’altronde, come ha rilevato il sondaggio di Demos, pubblicato in queste pagine una settimana fa, la secessione non piace neppure a coloro che predicano l’indipendenza. L’indipendenza, infatti, è concepita come in-dipendenza. Non-dipendenza. Cioè: autonomia. Appunto. Così, qualche dubbio resta, sulle ragioni del referendum. Visto che, per affrontare questi obiettivi, si sarebbe potuto ricorrere alle norme e ai procedimenti già previsti dalla Costituzione. In particolare, all’articolo 116, indicato esplicitamente dal quesito proposto in Lombardia. La Giunta della Regione Emilia-Romagna, d’altronde, ha scelto proprio questa via: un negoziato senza referendum. Il referendum, d’altronde, l’avevano già indetto Lombardia e Veneto. L’Emilia-Romagna ne ha sfruttato l’onda d’urto. Annunciando la propria iniziativa con un timing tanto puntuale da apparire un po’ sospetto.
Siamo, dunque, entrati in una nuova fase geo-politica. Perché questo referendum ha reso visibile una distinzione nota, anche in passato. Ma oggi palese. La “diversità veneta”. Il sondaggio di Demos pubblicato una settimana fa ne forniva alcune misure, appariscenti. Una fra tutte: il 15% dei cittadini veneti vorrebbe che la Regione si staccasse dall’Italia. Il doppio rispetto a quel che si rileva in Lombardia. E in Italia. A Nord, peraltro, la rivendicazione “regionalista” si appoggia sulla logica degli interessi, più che sull’identità. « Paroni (padroni) a casa nostra», aveva scandito Zaia per lanciare il referendum, rivolgendosi direttamente a un territorio di piccoli imprenditori ( paroni, appunto), di piccole aziende. Dove le piccole imprese e i piccoli imprenditori coincidono, spesso, con le famiglie. I sistemi di imprese con le comunità locali. Cioè, con i paesi. Federalismo, in questa accezione, significa trattenere le risorse, il denaro, gli ” schei” (come recita il noto libro di Gian Antonio Stella), nei territori dove vengono prodotti. E Zaia, d’altronde, lo ha scandito, in modo esplicito, immediatamente dopo l’annuncio dei risultati ufficiali: «Vogliamo tenerci i 9/10mi delle tasse». Cioè, quasi tutti “i nostri schei “.
In questo modo, ha marcato una duplice frattura. Da un lato: con la Lega Nazionale di Salvini. Dall’altro: con il Nordest, così definito da Giorgio Lago negli anni Ottanta (all’epoca direttore del Gazzettino) per riassumere il profilo di un territorio di piccole aziende e piccoli imprenditori. Il Nordest. Passato dalla Dc alla Lega (meglio: alla Liga), senza soluzione di continuità. Per esprimere la frustrazione di un contesto che si sentiva centro economico e periferia politica. Rispetto a Roma, ma anche a Milano.
Oggi, però, anche il legame tra il Veneto e le altre Regioni del Nordest si è complicato. Il “residuo fiscale” del Veneto, infatti, è attivo e molto elevato. Mentre nelle altre Regioni del Nordest (ad eccezione di Bolzano) risulta passivo. In quanto le risorse che giungono dallo Stato sono ben più ampie di quelle versate. Il Veneto, dunque, contribuisce ad arricchire lo Stato, ma anche le Regioni vicine. Così Zaia ha rivendicato, anche per il Veneto, lo «Statuto speciale».
Peraltro, dopo il 2007, l’economia territoriale ha dovuto affrontare difficoltà rilevanti, anche se, negli ultimi tre anni, l’andamento delle esportazioni e dell’occupazione è migliorato.
Così, l’aspirazione a trattenere “i soldi a casa nostra” ha assunto un significato prevalentemente “difensivo”. E il referendum ha fornito l’occasione per amplificare il ri-sentimento veneto.
Portabandiera: la Lega di Zaia. Il tasso di affluenza al referendum, infatti, risulta più elevato dove la Lega e la Lista del governatore hanno ottenuto i risultati migliori alle elezioni regionali del 2015. In particolare, a Vicenza, Treviso e Padova. E nei Comuni periferici, con meno di 15 mila abitanti (come ha rilevato l’Istituto Cattaneo di Bologna).
È probabile che ora Luca Zaia rafforzi ulteriormente il proprio consenso personale, da sempre elevatissimo. Secondo l’Osservatorio sul Nord Est di Demos (pubblicato sul Gazzettino ), negli ultimi anni, non è mai sceso sotto il 60%. Negli ultimi mesi, è perfino salito oltre il 70%. Indici che lo proiettano sulla scena nazionale. Dove la politica e i politici soffrono di crescente impopolarità. Non per caso, ieri, Massimo Cacciari lo ha candidato premier. Ma prima di lui ci aveva pensato Berlusconi. Tuttavia, si tratta di un’ipotesi rischiosa. Una trappola. Perché porrebbe il governatore contro Salvini e la sua Lega Nazionale. E lo isolerebbe, insieme al Veneto. È più probabile, allora, che Zaia utilizzi il referendum come “minaccia”. Per ottenere maggiori risorse dallo Stato. Ma anche per allargare il consenso politico intorno a sé. Oltre i confini della Lega e della Regione. D’altra parte, in Veneto, il referendum è stato condiviso da soggetti di diversa collocazione e provenienza.
Esponenti del mondo ecclesiale, associazioni di categoria. Perfino il Pd regionale si è schierato per il Sì. Cioè, con Zaia. A capo di una sorta di campagna elettorale permanente, in nome del “federalismo preterintenzionale” all’italiana (come ho avuto modo di definirlo in passato).
Avviato vent’anni fa. Senza un progetto consapevole e preciso. Oggi potrebbe riprodursi e propagarsi altrove. In-seguendo l’autonomia Regione per Regione. Ciascuna per sé. Ciascuna a modo suo. È la lezione – o, forse, la tentazione – offerta dal referendum veneto.
D’altronde, l’esito del voto ha fornito indicazioni diverse, nelle due Regioni coinvolte. Al punto da rendere inadeguata la categoria geo-politica del Lombardo-Veneto, rilanciata in questa occasione. Infatti, in Lombardia ha votato una quota minoritaria degli elettori, per quanto ampia: 38%. Seppure, per la validità del risultato, non fosse previsto un quorum. Richiesto, invece, in Veneto. Dove si è recata a votare una larga maggioranza dei cittadini. Oltre il 57%.
Quasi tutti hanno votato sì. Un «big bang», lo ha definito il governatore Luca Zaia. Il quale, da domani, anzi: oggi stesso, potrà avviare il confronto con lo Stato centrale, cioè, con il governo, affinché “alla Regione del Veneto siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”, come recita il quesito approvato dagli elettori. E lo stesso potrà fare il suo omologo lombardo, Roberto Maroni, “ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 116 (…) della Costituzione”. Nei quesiti referendari non troviamo echi di tipo catalano.
«d’altronde, come ha rilevato il sondaggio di Demos, pubblicato in queste pagine una settimana fa, la secessione non piace neppure a coloro che predicano l’indipendenza. L’indipendenza, infatti, è concepita come in-dipendenza. Non-dipendenza. Cioè: autonomia. Appunto. Così, qualche dubbio resta, sulle ragioni del referendum. Visto che, per affrontare questi obiettivi, si sarebbe potuto ricorrere alle norme e ai procedimenti già previsti dalla Costituzione. In particolare, all’articolo 116, indicato esplicitamente dal quesito proposto in Lombardia. La Giunta della Regione Emilia-Romagna, d’altronde, ha scelto proprio questa via: un negoziato senza referendum. Il referendum, d’altronde, l’avevano già indetto Lombardia e Veneto. L’Emilia-Romagna ne ha sfruttato l’onda d’urto. Annunciando la propria iniziativa con un timing tanto puntuale da apparire un po’ sospetto.
Siamo, dunque, entrati in una nuova fase geo-politica. Perché questo referendum ha reso visibile una distinzione nota, anche in passato. Ma oggi palese. La “diversità veneta”. Il sondaggio di Demos pubblicato una settimana fa ne forniva alcune misure, appariscenti. Una fra tutte: il 15% dei cittadini veneti vorrebbe che la Regione si staccasse dall’Italia. Il doppio rispetto a quel che si rileva in Lombardia. E in Italia. A Nord, peraltro, la rivendicazione “regionalista” si appoggia sulla logica degli interessi, più che sull’identità. « Paroni (padroni) a casa nostra», aveva scandito Zaia per lanciare il referendum, rivolgendosi direttamente a un territorio di piccoli imprenditori ( paroni, appunto), di piccole aziende. Dove le piccole imprese e i piccoli imprenditori coincidono, spesso, con le famiglie. I sistemi di imprese con le comunità locali. Cioè, con i paesi. Federalismo, in questa accezione, significa trattenere le risorse, il denaro, gli ” schei” (come recita il noto libro di Gian Antonio Stella), nei territori dove vengono prodotti. E Zaia, d’altronde, lo ha scandito, in modo esplicito, immediatamente dopo l’annuncio dei risultati ufficiali: «Vogliamo tenerci i 9/10mi delle tasse». Cioè, quasi tutti “i nostri schei “.
In questo modo, ha marcato una duplice frattura. Da un lato: con la Lega Nazionale di Salvini. Dall’altro: con il Nordest, così definito da Giorgio Lago negli anni Ottanta (all’epoca direttore del Gazzettino) per riassumere il profilo di un territorio di piccole aziende e piccoli imprenditori. Il Nordest. Passato dalla Dc alla Lega (meglio: alla Liga), senza soluzione di continuità. Per esprimere la frustrazione di un contesto che si sentiva centro economico e periferia politica. Rispetto a Roma, ma anche a Milano.
Oggi, però, anche il legame tra il Veneto e le altre Regioni del Nordest si è complicato. Il “residuo fiscale” del Veneto, infatti, è attivo e molto elevato. Mentre nelle altre Regioni del Nordest (ad eccezione di Bolzano) risulta passivo. In quanto le risorse che giungono dallo Stato sono ben più ampie di quelle versate. Il Veneto, dunque, contribuisce ad arricchire lo Stato, ma anche le Regioni vicine. Così Zaia ha rivendicato, anche per il Veneto, lo «Statuto speciale».
Peraltro, dopo il 2007, l’economia territoriale ha dovuto affrontare difficoltà rilevanti, anche se, negli ultimi tre anni, l’andamento delle esportazioni e dell’occupazione è migliorato.
Così, l’aspirazione a trattenere “i soldi a casa nostra” ha assunto un significato prevalentemente “difensivo”. E il referendum ha fornito l’occasione per amplificare il ri-sentimento veneto.
Portabandiera: la Lega di Zaia. Il tasso di affluenza al referendum, infatti, risulta più elevato dove la Lega e la Lista del governatore hanno ottenuto i risultati migliori alle elezioni regionali del 2015. In particolare, a Vicenza, Treviso e Padova. E nei Comuni periferici, con meno di 15 mila abitanti (come ha rilevato l’Istituto Cattaneo di Bologna).
È probabile che ora Luca Zaia rafforzi ulteriormente il proprio consenso personale, da sempre elevatissimo. Secondo l’Osservatorio sul Nord Est di Demos (pubblicato sul Gazzettino ), negli ultimi anni, non è mai sceso sotto il 60%. Negli ultimi mesi, è perfino salito oltre il 70%. Indici che lo proiettano sulla scena nazionale. Dove la politica e i politici soffrono di crescente impopolarità. Non per caso, ieri, Massimo Cacciari lo ha candidato premier. Ma prima di lui ci aveva pensato Berlusconi. Tuttavia, si tratta di un’ipotesi rischiosa. Una trappola. Perché porrebbe il governatore contro Salvini e la sua Lega Nazionale. E lo isolerebbe, insieme al Veneto. È più probabile, allora, che Zaia utilizzi il referendum come “minaccia”. Per ottenere maggiori risorse dallo Stato. Ma anche per allargare il consenso politico intorno a sé. Oltre i confini della Lega e della Regione. D’altra parte, in Veneto, il referendum è stato condiviso da soggetti di diversa collocazione e provenienza.
Esponenti del mondo ecclesiale, associazioni di categoria. Perfino il Pd regionale si è schierato per il Sì. Cioè, con Zaia. A capo di una sorta di campagna elettorale permanente, in nome del “federalismo preterintenzionale” all’italiana (come ho avuto modo di definirlo in passato).
Avviato vent’anni fa. Senza un progetto consapevole e preciso. Oggi potrebbe riprodursi e propagarsi altrove. In-seguendo l’autonomia Regione per Regione. Ciascuna per sé. Ciascuna a modo suo. È la lezione – o, forse, la tentazione – offerta dal referendum veneto.
La Repubblica – ILVO DIAMANTI – 24/10/2017 pg. 1 ed. Nazionale