Il dialogo
In uno studio (Aragno) Marcello Ciccuto analizza la poetica del Nobel: «Una miriade di richiami a citazioni e descrizioni di quadri»
di Paolo Di Stefano
Nel 1953, riflettendo sui dipinti del Braque anziano, Eugenio Montale mise in chiaro le sue preferenze e le sue idiosincrasie in fatto di arte figurativa parlando di «accettazione del reale» e di «disgusto della pittura da paravento». Da qui prende avvio il poderoso studio di Marcello Ciccuto su Montale e l’arte del nostro tempo, intitolato con una frase programmatica di Cézanne: Rifare Poussin d’après nature (Aragno). Ciccuto, che in tanti saggi ha affrontato gli scambi tra arte e parola, dà conto di questa lunga fedeltà montaliana alle arti visive, una «seconda vista», che si rivela sia nella scrittura poetica sia negli interventi critici. «Quasi non esiste lirica o pagina della scrittura di Montale che non riveli una riflessione ricavata dal contesto o dal linguaggio dell’arte. È quasi un tic del poeta, ed è stato per me persino divertente inseguire in tutti i suoi testi la miriade di richiami a fatti del mondo dell’arte, citazioni e descrizioni di opere, le esperienze di lettura davanti a dipinti, sculture, musiche, stampe, fotografie, installazioni che il poeta ha incrociato sin dalle primissime battute della sua attività di scrittore».
Che cosa cerca il poeta nelle arti visive?
«Le arti visive devono riuscire a esprimere, per Montale, la volontà di avvicinare un senso possibile del mondo e della vita, un attaccamento a ciò che va oltre il visibile e la realtà per segnalarci quel che conta e dura nel tempo. In questa prospettiva (uno dei punti fermi dell’intera poetica montaliana), ecco la sequenza di esperienze artistiche — dichiarate o no — che hanno dato via via sostegno alla ricerca di una coerenza con l’ordine del mondo».
Quali sono queste esperienze?
«I confronti ripetuti con l’arte di ogni secolo segnano le tappe del viaggio montaliano attraverso tanti “-ismi”: in negativo, troveremo note sull’Impressionismo quale fenomeno limitato a sensazioni fuggevoli o casuali intuizioni luministiche, e dunque non amato, così come non è amato il decorativismo liberty; note a proposito della pittura fondata su formule (il Cubismo) o su un caos di cromatismi (Futurismo, Divisionismo…), fino alla sordità del neoclassicismo, la superficialità dell’astrattismo o le tante vicende frammentate tra inutilità dell’esprimersi e immobile, superficiale indifferenza dei risultati».
Invece in positivo?
«In positivo, il poeta trova nelle arti visive i segni di qualche possibile salvezza, della “durata” o del vibrare di un significato eterno e che non si presenta subito ai sensi. Questo è tipico di un’arte complessa e non uni-dimensionale, come quella di Cézanne o di Corot: una pittura in presa diretta con le sostanze eterne del mondo a cui Montale resterà sempre fedele, come lo sarà rispetto ai rari esempi di “realismo metafisico” in cui si esprime con efficacia un sentimento profondo delle forme».
Nel rapporto reciproco tra pittura e musica, si parla di «musica pittorica» e di «pittura musicale». In che senso?
«È vero, la stessa prospettiva di una “lettura del mondo attraverso l’arte” si applica all’area musicale, di cui Montale è come si sa espertissimo. La “musica pittorica” è agli occhi del poeta e recensore quella impressionistica di Debussy o l’astratta sonorità di Stockhausen. La “pittura musicale” ci parla invece di un’arte pittorica che deve saper trarre insegnamento dalle sobrietà di accordi che bloccano l’espressione “in istanti di infinita durata”, o da composti affreschi di vasto impianto rappresentativo. Nulla sembra spiacere di più a Montale di un dipinto che risulti vacuo e inconcludente per assunzione di inutili arabeschi, di squisitezze espressive, di indistinte esasperazioni formali: quelle stesse che appunto ingombrano in particolare l’esperienza musicale del nostro Novecento».
Quali sono gli artisti verso cui Montale si sente debitore? E a cosa allude il titolo del libro?
«Montale è critico d’arte non professionale, ma di competenze e gusti tanto raffinati quanto estesi, sì che sarebbe difficile se non impossibile ricordare con pochi accenni quanto il suo sguardo ha voluto approvare o rifiutare delle esperienze artistiche da lui accostate. Ho accennato a una predilezione sua per pochi pittori (Cézanne, Corot, Morandi e qualche altro) e questo potrebbe già essere un dato significativo. La frase inserita nel titolo, attribuita storicamente proprio a Cézanne, riferisce a mio avviso in mirabile sintesi l’esigenza di un’arte moderna che, fra tanti “-ismi” ed episodi più o meno importanti, sia costruzione di una nuova visione classica del mondo: un’arte nella cui “materia naturale” possa sentirsi vibrare l’ideale eterno della vita, o una “disturbata divinità”, realmente al modo di Poussin».
Le arti visive devono esprimere, per lui, la volontà di avvicinare un senso possibile del mondo e della vita
In questa prospettiva di interesse verso l’arte, Montale si può avvicinare ad altri poeti suoi contemporanei?
«C’è un filo rosso che nell’arco dell’ultimo secolo ha legato ai segni dell’arte la verbalità di pressoché tutte le esperienze dei poeti. Non sarà stato in modo così diffuso come in Montale ma anche a voler restare sui maggiori del ’900 è vistoso il rincorrersi di scambi fra i segni della poesia e quelli delle “arti sorelle” quali pittura e scultura. Si potrebbe guardare già al d’Annunzio che traveste liricamente l’enciclopedia visuale dell’intero estetismo fin-de-siècle, o alle intermittenze di natura fotografica reperibili nella poesia di Pascoli».
E i coetanei di Montale?
«È facile arrivare alle visioni cubiste di Dino Campana o alla forza analogica della poesia di Alfonso Gatto, tra libera violenza fauve e quella che Contini chiamava “un’istanza figurativa molto vicina alle intenzioni… dei cosiddetti picassiani”. E si possono anche ricordare Salvatore Quasimodo, con le sue memorie figurative della pittura materica, e Ungaretti che assorbe in una categoria allargata di “barocco” i personali accostamenti alla Scuola Romana e a Fautrier. E ancora Vittorio Sereni che nel sodalizio con l’arte di De Staël ritrova il flusso dei segni tipico del clima di “Corrente”. Senza dimenticare Mario Luzi e la stagione dell’Informale».
Che cosa ci rivela in generale lo studio del rapporto tra poesia e arte?
«Anche attraverso l’esempio montaliano si squaderna davanti a noi, a saperlo praticare, un campo di ricerca fecondissimo, tale da permettere una lettura rinnovata dello sviluppo della poesia italiana, antica e moderna: che risulta concretamente arricchita proprio da questa “seconda vista”, sua componente ineludibile e che risulta molto utile a capire meglio che in passato i sensi plurali, non-univoci della parola poetica».
Che cosa troviamo del poeta Montale nel Montale pittore «domenicale»?
«Il pittore della domenica, come Montale amava definirsi, sa far tesoro dei segni della propria poesia, non foss’altro che per quelle sue composizioni pittoriche “scabre ed essenziali”, fatte di arsi paesaggi o poche linee di colore; trascurabili apparenze del vivere le potremmo dire, dove sembrano emergere “ombre ed echi di figure”. Vorrebbe certo il poeta che nei suoi quadretti potesse vibrare una qualche essenzialità; ma è perfettamente consapevole che si tratta di un desiderio da dilettante, pronto peraltro a riconoscersi lui stesso allineato ad altri pittori d’occasione».
Quali sono i rapporti di amicizia più significativi con i pittori?
«Il poeta en peintre volle sempre definirsi “una sintesi di De Pisis e Morandi”, e con questi artisti in particolare Montale ebbe negli anni una speciale vicinanza e talora diretta frequentazione. Ma se di Morandi amava un po’ in astratto la costruzione classica se non metafisica della visione, nella “stenografia” di De Pisis ritrovava più a pieno le scintille di quel poco che si incideva di tanto in tanto “nella nebbia di sempre”, il colore delle cose che passano, come ebbe a definire l’amico Goffredo Parise proprio quei frammenti di un’arte pittorica che riuscivano comunque a parlare d’eterno e forse risultavano anche capaci di rinviare — come certamente accadeva nel dire poetico montaliano — a un aldilà che eternamente trema fra le pieghe minori o meno appariscenti del visibile. Ciò che probabilmente il poeta riuscì ad apprezzare anche nella pittura di un altro artista da lui frequentato quale fu il versiliese Mario Marcucci».