Domenico Quirico
Gli affari dei jihadisti, il variegato business criminale dei Califfati, ovvero petrolio, reperti archeologici e droga, hanno codici, parole d’ordine, territori segreti, manovali e manager. Formicolano di viluppi misteriosi con le delinquenze più domestiche, le mafie italiane e quelle russe e cinesi, a disegnare una globalizzazione riuscitissima, una originale Cosa Nostra di crimine e fanatismo. Leggende, misteri e fatti li agitano, gonfiano, fanno vivere. Dove spesso bisogna guardare le cose a rovescio per vederle dritte. Di certo gli affari continuano anche ora che gli eredi di Abu Bakr sono passati allo stato gassoso della guerriglia e alla efficace delocalizzazione in caparbie periferie. Mentre l’Occidente ha l’oblio facile.
Dice un proverbio siriano: le tracce indicano il cammino. Ecco una traccia: al porto di Salerno. La Guardia di finanza sequestra quattordici tonnellate di anfetamine, 84 milioni di pasticche che portano un logo evocativo, Captagon. Il più grande sequestro di queste sostanze a livello mondiale. La droga era nascosta in cilindri di carta di uso industriale, ingegnosa botola a più strati che doveva sfuggire anche al controllo degli scanner, distribuita a 350 chili per cilindro. Se il peso non basta a stupire, ci pensano altre fantasmagoriche cifre: il miliardo di euro che avrebbe reso lo smercio.
Italia tappa dei traffici
In Campania, via Gioia Tauro, arrivavano anche le fila del traffico di reperti archeologici trafugati dai jihadisti in Siria e Libia. La mafia cinese faceva da corriere con le sue navi, la’ndrangheta provvedeva allo spaccio sul mercato clandestino dell’arte. Coincidenze. Rimandi. Intriganti e significativi. Cambiano le merci. Le vie e i soci sono gli stessi. Mafia di Dio e mafie più terrene continuano a collaborare, innescate da appetiti senza fondo. Captagon: ecco pronunciato il logo losco. Ci hanno appiccicato l’eco degli anni del massacro siriano e del fanatismo planetario. Questa droga è un vintage che torna dopo molte metamorfosi, anche chimiche. È ascesa dalla spicciola cronaca nera alla geopolitica. Perché ormai per definizione è «la droga della guerra siriana», «le pasticche dell’Isis», oppure «la droga dei terroristi».
Il mix in pastiglie
Negli anni Sessanta questa droga la deglutivano intellettuali alla moda sulla Rive Gauche per dare slancio a libri memorabili, gli studenti bisognosi di faticosi ripassi notturni, ciclisti, pugili e integralisti del body building. Un rimedio universale: eccita, fornisce energia, concentrazione, potenza. Malizie raccontano che non la lesinavano negli spogliatoi del Marsiglia, spiegherebbe persino una coppa dei campioni. Sparì dalle farmacie negli anni Novanta. Per ricomparire nell’arsenale guerresco degli islamisti. Rafforzerebbe lo slancio guerresco, la resistenza alla fatica, la smania di farsi bombe umane. L’arma segreta che trasformerebbe in belve affiochiti guerrieri da caffè. Distinguere il vero dal mito è diventato difficile. Spiegare l’efficienza micidiale dei jihadisti con il ricorso alla droga sarebbe come attribuire le vittorie iniziali delle armate di Hitler alle droghe che venivano distribuite tra i suoi solerti combattenti. Il grande consumatore di Captagon è certo il mondo arabo: Arabia saudita e paesi del golfo soprattutto. Qui la droga è ufficialmente una bestemmia contro dio, chi la smercia va al patibolo, ma evidentemente il vizio si è scavato una confortevole tana tra i buoni credenti. I clienti non sono certo i combattenti di dio.
Le scorte del principe
Nel 2015 all’aeroporto Hariri di Beirut grande agitazione per l’arrivo di un vip, un giovane elegantemente avvolto nella “dichdacha” immacolata. È un principe della famiglia reale saudita dal nome lunghissimo come i conti in banca, Abdel Mohsen Ibn Walid Ibn Abdelalziz. È venuto per svagarsi a Beirut, antica e ribalda villeggiatura di quei dinasti. Riparte tra salamelecchi e mance, i suoi famigli sfilano affardellati da otto elegantissime valigie e 32 enormi cartoni con il simbolo saudita, palmizi e scimitarre incrociate. Come dire, roba sacra, non si tocca. Solo che stavolta i finanzieri libanesi invece di inchinarsi all’ospite, vogliono aprire, ispezionare, frugare. Sconcerto, indignazione, minacce di incidente diplomatico. Affondano le mani in due tonnellate di pillole Captagon, dieci milioni di dollari di anfetamine. Il principe dice di non sapere nulla, accusa, è una vecchia abitudine dunque, due collaboratori. Diventa “il principe Captagon”.
Nessuno ha mai scoperto a chi fossero destinati i quintali di droga, eccessivi per uso personale: alle mille e una notte degli innumerevoli principi sauditi o ai giorni grami e pericolosi dei jihadisti siriani di cui l’Arabia saudita è il grande padrino? Si mormora che la improvvisa curiosità dei doganieri fu una vendetta di Hezbollah, il partito di dio libanese contro i sauditi, grandi avversari del loro alleato Bashar Assad e dell’Iran sciita.
La produzione europea
Ai tempi bolscevichi del Patto di Varsavia il Captagon lo producevano i bulgari, in un laboratorio di stato, il Pahrmachim. Smerciandolo via Turchia, fatturavano valuta pregiata. Gli alleati del regime siriano avevano parte nel traffico. Smontati i Muri, le mafie rilevano l’attività, c’è un mercato dei chimici più bravi, ci si batte eliminando la concorrenza con il kalashnikov. In Europa, però, la fenetillina passa di moda: con eroina e ecstasy persino i bulgari non la vogliono più. Ma questa droga dei poveri può valere ancora oro. Giudiziosamente si delocalizza la produzione vicino ai luoghi arabi di maggior consumo, Libano e Siria. I chimici si trasferiscono, semplici macchinari prodotti in Cina e in India lavorano a pieno regime. Nelle benedette terre wahabite la pillola è popolarissima, la chiamano “al Captagon”, ha perfino fama di esser più efficace del viagra. Altro che jihad!
Il business
La guerra civile siriana, con il suo caos, è una occasione imprenditoriale. I laboratori controllati ora dalle milizie islamiche esportano per milioni di dollari e forniscono denaro per le munizioni. Si lavora anche nella piana della Bekaa alla frontiera tra Siria e Libano, la Silicon Valley della droga di Hezbollah. Sono i curdi a legare, probabilmente con troppa enfasi, le anfetamine al Califfato: a Kobane, raccontano, i combattenti morti avevano le tasche piene di pillole, i miliziani catturati farfugliavano, con gli occhi sbarrati, in preda alla droga con cui avevano cercato coraggio per l’assalto. Purtroppo non è il Captagon ad ammantellare il furore sanguinario, le fregole e i parossismi militari del jihad. Come forse dimostrerà il sequestro di Salerno, continua semplicemente a riempirne i forzieri.