di Roberto Saviano
Nelle comunicazioni via radio lo chiamano «il magistrato con la foxtrot iniziale», dando soltanto la prima lettera del cognome per non rivelare a eventuali orecchie indiscrete che è lui, Giovanni Falcone, l’uomo che giace in fin di vita all’interno della Croma bianca sull’autostrada A29 all’altezza di Capaci. Di fianco, sul sedile del passeggero, c’è Francesca Morvillo. Anche lei è in fin di vita.
E anche lei, per prudenza, viene descritta alla radio come «la moglie della nota personalità». Il suo orologio è fermo alle 17 e 58 minuti, il momento esatto in cui il tritolo nascosto sotto l’autostrada è esploso e tutto si è trasformato in un inferno di lamiera, terra e corpi martoriati. I tre agenti della scorta Rocco Dicillo, Vito Schifani e Antonio Montinaro sono morti sul colpo. Gli altri sono malconci, ma vivi e in piedi. Oggi, 23 maggio 1992, tutti le edizioni speciali dei tg parlano dell’assassinio di Falcone e della sua lotta contro la mafia.
Anche oggi, 23 maggio 2022, trent’anni dopo, parliamo di questo. Parliamo di Falcone, di Francesca Morvillo, degli agenti Dicillo, Schifani e Montinaro. E parliamo di mafia. È questa la drammatica sponda che ci viene offerta: questo sciagurato ricordo di sangue. Lo facciamo noi e lo fanno molti altri. Ed è un bene, perché altrimenti, se non si trattasse di commemorare una fra le più alte personalità che questo Paese abbia mai espresso in fatto d’impegno contro la criminalità organizzata — se non si trattasse di affogare ancora una volta il nostro ricordo nel sangue, di rievocare la sciagura perché serva da monito e da sprone — allora non lo farebbe nessuno. Certamente non lo farebbe la politica. Il tema della mafia sembra scomparso dall’agenda di governo, dai dibattiti dell’opposizione. Sembra che la mafia, le mafie, siano scomparse. Ma è esattamente il contrario.
E tristemente ironico che il primo a mostrarci una mafia finanziaria, prima ancora che sanguinaria, fu proprio Falcone. Fu lui il primo a parlare di una mafia che ancora più delle pistole fa parlare i consulenti finanziari. In larga parte dematerializzata, ma non per questo meno forte. Tutt’altro. Oggi mafia non vuol dire soltanto estorsioni, minacce, omicidi, droga. Oggi mafia vuol dire aziende svuotate e ripopolate per riciclare denaro, imprenditori sconfitti da una concorrenza invincibile perché basata sui profitti illeciti, grandi opere realizzate al risparmio sulla pelle dei cittadini. Se ieri, parlando di mafia, potevamo pensare a un coltello affondato dentro la carne della società, oggi dobbiamo pensare a un virus, a una pestilenza silenziosa che sfugge all’occhio ma ammorba la società, abbassando drasticamente la qualità della vita di ognuno. Questo mi ha insegnato Falcone, questo ha insegnato a tutti noi. Anche ai nostri politici.
E allora perché gran parte della politica europea — non tutta, per fortuna — ignora il problema? Forse l’ha dimenticato? Forse crede davvero, ingenuamente, che la mafia sia stata debellata o che sia stata messa all’angolo? Ho il timore che l’intervista rilasciata nel luglio dell’88 da Paolo Borsellino ad Attilio Bolzoni e Saverio Lodato in cui parlava di smobilitazione dell’antimafia sia ancora attualissima.
Altro argomento ancora oggi attualissimo è quello della delegittimazione. E anche questo, per sua disgrazia, ce lo mostrò Falcone. Se i mafiosi affrontano i giudici con le pistole, i politici, i giornalisti a loro vicini, talvolta perfino i colleghi magistrati, li affrontano con lo strumento della delegittimazione creando le condizioni di cui parlava il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, da neo-prefetto di Palermo, poco prima di essere ammazzato: il personaggio pubblico viene eliminato «quando avviene questa combinazione fatale, è diventato troppo pericoloso ma lo si può uccidere perché è isolato». Si attacca un magistrato nel personale, si scava nella sua vita familiare, gli si nega un incarico che potrebbe ufficializzarne il prestigio, lo si rende un emarginato. Tutto questo spalanca cancelli alle mafie, disegna un bersaglio sulla schiena di un uomo. Che poi a sparare siano altri, è quasi superfluo.
Quando il 21 giugno del 1989, sulla scogliera dell’Addaura davanti alla casa di villeggiatura di Falcone, venne ritrovato un borsone pieno di esplosivo, alcuni insinuarono che ce l’avesse messo lui. Che fosse un tentativo per attirare l’attenzione su di sé con l’obiettivo di essere nominato procuratore aggiunto. Falcone si era già candidato, dopo la partenza di Antonino Caponnetto, come capo dell’ufficio istruzione di Palermo, cioè come guida del pool antimafia costruito da Rocco Chinnici e istituzionalizzato da Caponnetto di cui era stato indiscusso protagonista fino a quel momento e di cui, secondo lo stesso Caponnetto, avrebbe dovuto custodire l’eredità. Ma fu bocciato. Il Csm gli preferì il collega Antonino Meli, più anziano di lui ma con un’esperienza nei processi alla mafia imparagonabile a quella di Falcone.
Quando la Cassazione ha emesso la propria sentenza sul fallito attentato dell’Addaura, ha detto che «Giovanni Falcone fu sottoposto a un infame linciaggio (…) diretto a stroncare per sempre, con vili e spregevoli accuse, la reputazione e il decoro personale del valoroso magistrato».
Scrivono i giudici: «Non vi è, invero, alcun dubbio che Giovanni Falcone — certamente il più capace magistrato italiano — fu oggetto di torbidi giochi di potere, di strumentalizzazione ad opera della partitocrazia, di meschini sentimenti di invidia e di gelosia (anche all’interno delle stesse istituzioni), tendenti ad impedirgli che egli assumesse quei prestigiosi incarichi i quali dovevano, invece, a lui essere conferiti sia per essere egli il più meritevole sia perché il superiore interesse generale imponeva che il crimine organizzato fosse contrastato da chi si era indiscutibilmente dimostrato il più bravo e il più preparato e che offriva le maggiori garanzie — anche di assoluta indipendenza e di coraggio — nel contrastare, con efficienza e in profondità, l’associazione criminale».
Anche la sentenza di primo grado diceva chiaramente: «Sono emersi con drammatica evidenza i perversi giochi di potere realizzati contro le legittime aspettative di Giovanni Falcone». Infame linciaggio, spregevoli accuse, torbidi giochi di potere. Potevano, coloro che firmavano articoli contro Falcone, non sapere che lo stavano esponendo? Le drammaticamente celebri lettere firmate «il Corvo», che provenivano dall’interno del tribunale e che, fingendo di svelare da dietro le quinte i piani di Falcone lo infangavano, avevano la volontà di agevolare l’attentato di Cosa Nostra? Probabilmente no, volevano solo annullarne la reputazione per sabotarne la carriera, assassinarlo civilmente — quello che spesso fa il giornalismo-fango — ma lasciarlo in vita fisicamente.
Però, proprio come rileva la Cassazione, è indubbio che le «vili e spregevoli accuse» o l’«infame linciaggio» — o, semplicemente, la negazione di un riconoscimento ufficiale — abbiano mandato alla cosca un messaggio molto chiaro: «Quest’uomo per noi è poco importante».
È possibile che all’epoca i responsabili di questi attacchi non ne fossero consapevoli? Be’… Teoricamente è possibile anche se difficile da credere. È possibile che ancora oggi, chi veste quegli stessi panni — fra politici, giornalisti, colleghi di opposte correnti — ignori le conseguenze delle proprie azioni? No. Oggi non è più possibile. Come non è scusabile che le mafie sembrino una questione ormai risolta. Che sembrino svanite. A svanire invece è stato solo l’argomento mafie dal dibattito politico, dal dibattito pubblico.