Stritolata dalla mancanza di fondi, consumata dagli spietati meccanismi concorrenziali azionati dal sistema della valutazione, l’università italiana agonizza mentre la ricerca non è più libera. È un prodotto sul mercato accademico, ostaggio della logica «pubblica o muori». È il frutto di una «neolingua» orwelliana dove «miglioramento della qualità», «eccellenza», «competenza», «trasparenza» significano il contrario: verticalizzazione del potere; riduzione di didattica e ricerca a quantità misurabili e a performance produttive; concorrenza su risorse calanti e distribuite in modo da penalizzare e discriminare gli atenei del Sud a favore di un pugno di centri del Nord. La tanto decantata liberalizzazione, ammantata di oggettività dieci anni fa al tempo della cosiddetta «riforma» Gelmini, si è rovesciata in una burocratizzazione kafkiana.
A DARE VOCE alla critica affilata di un processo che ha portato a una situazione intollerabile è l’appello «Disintossichiamoci: sapere per il futuro» pubblicato ieri sul sito Roars.it. Promosso dai docenti Davide Borrelli, Federico Bertoni, Maria Chiara Pievatolo e Valeria Pinto, ha visto tra i primi firmatari tra i primi duecento, tra gli altri, anche Tomaso Montanari, Marco Belpoliti, Alessandro Dal Lago e Marco Revelli. In poche ore, ieri in serata, le adesioni si erano avvicinate a cinquecento tra i docenti universitari. Colpisce la forte presenza di discipline scientifiche e tecniche, a dimostrazione che la critica della valutazione non è appannaggio di un arroccamento nostalgico degli umanisti. E sono arrivate anche le prime adesioni di ricercatori italiani attivi all’estero.
L’APPELLO attesta l’esistenza di una larghissima consapevolezza tra i docenti, non solo universitari, della contraddizione di un’educazione e di una ricerca trasformate nell’impresa del «capitale umano». È un segno culturalmente importante che dimostra, anche in Italia, l’esistenza di una corrente di pensiero, fino ad oggi sotterranea, che non si rassegna alla parola d’ordine del capitalismo neoliberale: «Bisogna adattarsi», questa è l’unica realtà possibile. Esistono invece ancora spiriti indocili che non si rassegnano al governo di cui sono sia vittime, sia protagonisti. «La burocratizzazione della ricerca e la managerializzazione dell’istruzione superiore – si legge nel testo – rischiano di diventare la Chernobyl del nostro modello di organizzazione sociale». Per uscire dal regime «tossico» di una valutazione che distrugge la libertà di pensiero e la cooperazione necessaria alla creazione del nuovo i promotori intendono organizzare a Roma, nel mese di giugno, un controvertice rispetto alla conferenza che vedrà i ministri dell’università fare il punto sul «processo di Bologna», lì dove tutto è iniziato, nel 1999. Dieci anni prima il movimento studentesco della Pantera occupò gli atenei per tre mesi e denunciò l’inizio del processo. Fu quella un’anticipazione di massa del conflitto in cui tutta la società, non solo la scuola e l’università, è oggi sprofondata. Lo stesso obiettivo guidò il movimento dell’Onda tra il 2008 e il 2010 contro l’approvazione della «riforma» Gelmini. Questa è la genealogia delle lotte che trova oggi una nuova attualità in un testo espressione di un vasto dibattito critico che trova un’eco anche in Francia dove in queste settimane è in corso una mobilitazione contro una nuova riforma che precarizza la ricerca.
LA «VALUTAZIONE» è una procedura chiamata «valutazione della qualità della ricerca» (Vqr), gestita dall’agenzia Anvur, giunta alla sua terza edizione. Il suo scopo è assegnare voti agli atenei e ai dipartimenti universitari. Su questa base determina la ripartizione della cosiddetta «quota premiale» del fondo di finanziamento dell’università. Nel 2019, sono stati distribuiti 1,35 miliardi, in base a una classifica che ha selezionato 180 dipartimenti di «eccellenza», l’87% dei fondi sono andati al Centro-Nord. Questi voti sono elaborati da algoritmi controversi e non verificabili, all’interno di un sistema che si sta trasformando in un mercato. Lo denuncia un’inchiesta apparsa su Roars.it secondo la quale il Politecnico di Milano sarebbe intenzionato ad attribuire ai docenti che ricopriranno un ruolo di «esperto valutatore» nell’attuale «Vqr» la metà del costo di una borsa di dottorato per un triennio pari a 30 mila euro.
I FIRMATARI dell’appello non chiedono solo un rifinanziamento del sistema, ma un cambio di rotta radicale del suo governo: «Sono in molti ormai a ritenere che questo modello di gestione della conoscenza sia tossico e insostenibile a lungo termine per la democrazia e i saperi».
***Per adesioni: sapereperilfuturo@gmail.com