Quando Sinone convince, con l’inganno e la menzogna, i troiani ad accogliere come un dono il celebre cavallo di legno, Enea commenta sconsolato: “da un solo crimine conoscerai un intero popolo”. Il male commesso da un uomo, se non è il male di tutti gli uomini, è certo il male di un’epoca, di un mondo: il crimine stesso è l’indizio di un errore più grande. Poi, nel caso di un crimine inusuale come il duplice omicidio di Lecce, con le indagini ancora in corso, le chiavi interpretative sono infinite: ne aggiungiamo una, perché sarebbe un errore buttarle via tutte e non provare nemmeno ad aprire il lucchetto. Un errore consolatorio, la marginalizzazione del crimine insieme all’alterità insondabile della follia, il processo che Foucault definisce grande internamento:
Forse, un giorno, non sapremo più esattamente che cosa ha potuto essere la follia. La sua figura si sarà racchiusa su se stessa non permettendo più di decifrare le tracce che avrà lasciato. Queste stesse tracce non appariranno, a uno sguardo ignorante, se non come semplici macchie nere. […] Tra le mani delle culture storiche non resterà nient’altro che le misure codificate dell’internamento, le tecniche della medicina, e dall’altra parte l’inclusione improvvisa, irruente, della parola degli esclusi nel nostro linguaggio.
Michel Foucault
E invece no, perché Antonio De Marco, il presunto assassino, ci appartiene, il suo gesto ci parla. In un modo opposto al delitto di Colleferro, del quale rappresenta, simbolicamente, il contraltare. Il male di Colleferro si diffonde sulla superficie della società, “come un fungo”, direbbe Hannah Arendt, mentre il male di Lecce rovescia la società dalle fondamenta; i fratelli Bianchi uccidono senza pensarci, De Marco pianifica tutto; i fratelli Bianchi non hanno parole, De Marco ne ha di pesantissime: “li ho uccisi perché erano troppo felici”. Ecco la chiave che vogliamo tentare, la felicità. Il concetto è antico: eudaimonia, per i greci. Più che una condizione, però, una domanda perenne, un orizzonte: come essere felici? Così, dalle risposte emerge lo spirito delle civiltà – la sapienza, la fede, la gloria, la rinuncia – finché, infine, si consuma la domanda: per la società contemporanea la felicità è la norma. Da una parte c’è l’iconografia della felicità, ugualmente stereotipica in tutte le sue declinazioni pubblicitarie, dalla famiglia del Mulino Bianco al Pride; dall’altra la manualistica della felicità, prodotta in serie da psicologi e filosofi pop per riempire lo spazio sullo scaffale fra i libri di ricette e l’ultima ristampa di Camilleri. Non è importante che questa felicità ci sia o non ci sia, così come, per la propaganda, non è importante che la guerra si stia vincendo o perdendo: la verità è sancita dall’eliminazione di chi non si conforma, i disfattisti. Per la società occidentale contemporanea, quella senza alternative, il culmine della storia, il disfattismo è l’infelicità.
Le famiglie felici, dice Tolstoj, si assomigliano tutte. Dunque la condizione delle due vittime, un amore realizzato, è semplice e non racconta molto, di certo non si incastra con l’omicidio – un gesto non solo sproporzionato, ma nemmeno correlato: ben oltre i futili motivi, manca il nesso di causalità. Si è parlato di invidia, ma l’idea è semplicistica. L’invidia, per come Giotto la rappresenta nella Cappella degli Scrovegni, è l’opposto della carità: se carità significa offrire se stessi agli altri, l’invidia spinge a sottrarre agli altri per il proprio vantaggio. Cosa avrebbe guadagnato De Marco, se non qualche probabile decennio di galera? E poi, perché proprio loro? Escluso il movente passionale, l’esistenza della coppia è irrilevante per l’assassino. Proviamo, invece, a rovesciare il discorso: all’inizio, prima del gesto criminoso, c’è già la colpa. Una colpa così grande da offuscare l’omicidio stesso, cioè la colpa di non essere felici. Di felicità si parla troppo, ma solo come se fosse una semiretta, una narrazione tipicamente progressista che va dalla felicità potenziale fino alla felicità infinita. Di infelicità, dunque, non si parla mai, rimane una condizione senza spiegazioni. Non c’è l’infelicità-martirio, quella che sarà consolata nel Regno dei Cieli; non c’è l’infelicità-grandezza, il segno sulla fronte degli uomini geniali; non c’è l’infelicità-ingiustizia, da attribuire marxianamente all’alienazione. Resta solo l’infelicità-colpa: quando non viene promossa a depressione e soppressa a botte di farmaci, l’infelicità è affare dell’infelice, che non può nemmeno dichiararsi tale.
De Marco, il presunto assassino, è infelice, si chiede perché, non trova risposta: da una parte gli annunciano che è un privilegiato – un maschio bianco nella parte di mondo migliore – dall’altra gli intimano che ha il diritto alla felicità e deve esercitarlo, perché altrimenti la sua vita rimarrà irrisolta. Non è, ovvio, un profilo criminologico: piuttosto un simbolo, un punto di vista letterario. “Gli uomini muoiono e non sono felici”, dice il Caligola di Camus: la società contemporanea non può permettersi questa semplice ammissione. Chiude gli occhi, nega la realtà, al malato che muore racconta che non ha lottato abbastanza, al povero la leggenda della meritocrazia, e all’infelice che si è perso qualcosa. Invece non si è perso niente, ed è appunto questa consapevolezza perduta del dolore, il proprio e quello degli altri, che dovrebbe fermare la mano omicida. Se davvero la felicità fosse la norma dell’esistenza, allora De Marco avrebbe persino ragione – quella ragione storica, cruda e rocciosa, dei rivoluzionari intorno alla ghigliottina. Sarebbe uno dei dannati della terra che si vendica.
Non è questo, però, il paragone corretto. Meglio andare dall’altra parte, cercare dentro uno dei romanzi maledetti della letteratura italiana, La distruzione. Altra storia di un uomo ingannato dal teatrino totalitario della felicità, che lui identifica con la smisurata, amorale, dionisiaca potenza del nazismo, con i barbari fatti di volontà pura – Forza nella gioia era, guarda caso, il nome dell’iniziativa ricreativa per i lavoratori del Reich. Anche quella una favola su come l’uomo dovrebbe essere, più o meno uguale alla favola che spaccia la modernità capitalista, il “devi godere” di Lacan. Ma l’uomo rimane com’è: infelice. De Marco, qui sta la sua e la nostra tragedia, ha ucciso per l’impossibile. Caligola:
Questo mondo, così come è fatto, non è sopportabile. Ho dunque bisogno della luna, o della felicità, o dell’immortalità, di qualcosa che sia forse insensato, ma che non sia di questo mondo.
Albert Camus
Ad Antonio De Marco, invece, hanno detto che la luna è lì, di questo mondo, che a parte lui tutti l’hanno trovata. E se è a portata di mano, è spaventosamente anche a portata di coltello. Fra Le notti bianche e Memorie dal sottosuolo, le due opere di Dostoevskij sulla questione della felicità, trascorrono sedici anni: il nostro potenziale assassino ne ha ventuno. Possiamo chiederci se, nel buio della sua vita che non conosciamo, è avvenuta la stessa trasformazione – i due protagonisti potrebbero, in effetti, essere la stessa persona. L’uomo de Le notti bianche è abbandonato da Nasten’ka nella maniera più innocente: lei va incontro alla sua felicità e lui rimane solo, senza violenza e senza rancore. “Un intero attimo di felicità” basta per tutta la vita, ci promette. Poi la vita prosegue, e il dolore – al contrario di quello che dice Nietzsche – si rivela più profondo della gioia: allora nasce l’uomo del sottosuolo, che vagheggia vendette e frequenta prostitute, come De Marco. È inevitabile, questo percorso di fallimento? Forse è qui il punto: pochi se ne rendono conto e, fra questi, pochi uccidono o si uccidono. Ma capita così: uno crede che la vita debba bastargli, e quando infine non basta comincia a svolazzare ciecamente, come un insetto, fra il rancore e il senso di colpa. Non può perdonare gli altri, perché crede alla pantomima di felicità che gli sbattono in faccia, e non può perdonare se stesso, perché significherebbe la disperazione. Nella lacerazione fra i due estremi sta un delitto senza movente, che è solo un tentativo di distruggere ogni cosa:
Ho sopportato tutta la tortura di tutte queste chiacchiere, Sonja, e mi è venuto il desiderio di liberarmi da tutto quel peso: ho voluto uccidere senza casistica, Sonja, uccidere per me stesso, per me solo! […] Ho ucciso e basta; ho ucciso per me stesso, per me solo […]. Ho forse ucciso quella vecchia? Ho ucciso me stesso, non quella vecchia! Mi sono accoppato con un colpo solo, e per sempre!
Fedor Dostoevskij