Concorrenza, una proposta di legge liberista che sa di muffa

La delega al governo è una strategia per privatizzare i servizi pubblici locali, in barba ai risultati del referendum del 2011 sull’acqua; ed è un affare di circa undici miliardi di euro all’anno

Non fatevi distrarre dai tassisti o dagli ambulanti, né dalle proteste dei “bagnini” (questi ultimi “graziati” dal disegno di legge sulla concorrenza, ma penalizzati dalla recente sentenza del Consiglio di Stato, come vedremo più avanti), il progetto di legge del governo sulla concorrenza ha il suo centro altrove. E precisamente in quell’articolo 6 che dispone una delega al governo per la privatizzazione di tutti i servizi pubblici locali. Un affare di circa undici miliardi l’anno che da decenni fa gola a privati, multinazionali e fondi di investimento in cerca di settori che garantiscano profitti adeguati. La resistenza degli enti locali ad affidarsi a gare aperte, in questi anni, è stata abbastanza efficace, ovviamente con le dovute eccezioni. Fatto sta che per l’86% questi servizi sono affidati a società pubbliche o a partecipate. Ora però interviene il “governo dei migliori”.

Malgrado il suo keynesismo temperato e temporaneo (cioè in attesa del ritorno delle regole del Patto di stabilità), Draghi sui servizi pubblici locali segue le direttive liberiste dello stesso Draghi, sia pure in ritardo di alcuni anni. Qualche commentatore si è divertito a ripescare le sue esternazioni in merito. Si inizia a bordo di uno yacht, il “Britannia”: era il 2 giugno del 1992, quando di fronte a una platea di industriali, manager e rappresentanti della finanza internazionale, il nostro – all’epoca direttore generale del Dipartimento del Tesoro – auspicava la privatizzazione delle principali aziende pubbliche di Stato del nostro Paese. Anche se poi precisava che “la decisione sulla privatizzazione è un’importante decisione politica che va oltre le decisioni sui singoli enti da privatizzare. Pertanto può essere presa solo da un esecutivo che ha ricevuto un mandato preciso e stabile”.

Qui, in verità, il Draghi di oggi contraddice il Draghi di ieri, perché il suo governo si è insediato senza il mandato del voto popolare, e la sua agenda non è stata sottoposta al giudizio degli elettori. Ma tant’è. Dobbiamo ricordare che quando il popolo è stato chiamato alle urne nel 2011 con un referendum, ventisette milioni di italiani, la maggioranza assoluta, si sono espressi contro la privatizzazione dell’acqua e per una sua gestione fuori dalla logica del profitto.

Dove Draghi invece non si smentisce è rispetto a quanto affermato nella famosa lettera riservata del 5 agosto 2011 – inviata dall’allora presidente entrante della Bce insieme con il presidente uscente, Trichet, al governo Berlusconi –, nella quale si chiedeva (come primo punto!) la “piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali […], in particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala”.

Il disegno di legge delega tutto al governo

In teoria, in base ad una norma approvata nel 2009, si doveva approvare una legge sulla concorrenza ogni anno, ma ciò è avvenuto solo nel 2017. Al momento in cui scriviamo, il testo del disegno di legge non è stato ancora inviato al parlamento. Non si tratta di un decreto legge e dunque si possono prevedere tempi più lunghi. In pratica, esso contiene almeno sei deleghe al governo, che poi ne dovrà scrivere i decreti attuativi entro sei mesi. Le Camere potranno solo esprimere dei pareri non vincolanti sui testi.

Come già detto, il cuore della proposta legislativa è rappresentato dalla delega di cui all’articolo 6 in merito alla privatizzazione di tutti i servizi pubblici locali (trasporti, energia, rifiuti, acqua, ecc.), senza alcuna distinzione. L’ente locale che opterà per la gestione diretta di tali servizi dovrà “giustificare” il mancato ricorso al mercato. Esso dovrà dimostrare anticipatamente, e successivamente periodicamente, il perché di questa scelta al giudizio dell’Antitrust, oltre a prevedere un monitoraggio dei costi: “Una motivazione anticipata e qualificata, da parte dell’ente locale, per la scelta o la conferma del modello dell’autoproduzione ai fini di una efficiente gestione del servizio, che dia conto delle ragioni che, sul piano economico e della qualità e dei costi dei servizi per gli utenti, giustificano il mancato ricorso al mercato, anche in relazione ai risultati conseguiti nelle pregresse gestioni in autoproduzione”. Le “pregresse gestioni”, com’è noto, sono quasi tutte in rosso.

La decisione del Comune potrà essere impugnata dalle imprese, esponendo così l’ente locale e il sindaco a rischi economici. Il privato che gestirà il servizio, invece, è tenuto solo a presentare una relazione sulla qualità del servizio e sugli investimenti effettuati. Un compitino.

Non manca la norma per facilitare l’ingresso delle società multiservizi quotate in borsa: “revisione delle discipline settoriali in materia di servizi pubblici locali, con particolare riferimento al settore dei rifiuti e alla gestione del servizio idrico, al fine di assicurarne l’armonizzazione e il coordinamento”. Ai cittadini romani non può sfuggire come questa norma riecheggi, in particolare, la proposta di Calenda di “coordinare” Ama e Acea, delegando a quest’ultima, posseduta al 49% da privati, la parte più vantaggiosa della gestione dei rifiuti urbani.

I fallimenti delle privatizzazioni dei servizi pubblici

L’ideologia liberista che sta dietro questa proposta sa di muffa, specie dopo l’esperienza della pandemia. Lo smantellamento progressivo, negli ultimi decenni, della sanità pubblica ha fatto pagare un duro prezzo al nostro Paese in termini di vite umane che potevano essere salvate. Anche in quel caso il fallimento del mercato è stato palese.

Come osservato dal deputato di Liberi e uguali, Stefano Fassina, questa ideologia prescinde da un bilancio oggettivo dei risultati raggiunti nella gestione privatistica dei monopoli naturali, come le riserve idriche, il trasporto pubblico locale, il ciclo dei rifiuti, le grandi infrastrutture di rete. Le privatizzazioni già effettuate hanno prodotto aumenti di tariffe, ridotto gli investimenti, la qualità e la capillarità del servizio pubblico locale nei suoi vari ambiti: si pensi al trasporto pubblico locale o al servizio idrico.

Tutto ciò ha una ragione strutturale, messa bene in luce dall’economista Roberto Romano: nel caso dei monopoli naturali e/o tecnici, per avere dei costi marginali contenuti, si è costretti a sviluppare delle economie di scala sugli investimenti. In certi casi, separare la proprietà pubblica delle infrastrutture dalla gestione privata del servizio serve proprio a garantire i margini di profitto ai gestori privati. Nel caso di alcune concessioni i risultati sono disastrosi: le perdite di circa il 40% dell’acqua, il crollo del ponte Morandi a Genova. In altre il servizio è peggiorato notevolmente, come nei servizi resi da Tpl, la società privata che gestisce il 20% del servizio del trasporto pubblico locale della capitale. Non è un caso che la Gran Bretagna stia rinazionalizzando le ferrovie. Nei monopoli naturali e nei servizi che devono garantire i diritti essenziali di tutti i cittadini la concorrenza non funziona, e serve solo a garantire rendite al capitale.

“Bagnini” sull’orlo di una crisi di nervi e tassisti arrabbiati

In un primo momento, di fronte alle resistenze di alcuni partiti, l’applicazione della Direttiva Bolkestein alle concessioni balneari, che erano state prorogate fino al 31 dicembre 2033 da una norma approvata nel 2019 dal governo Conte 1, era stata sostituita da un censimento aggiornato delle concessioni e di quanto incassa lo Stato per fare trasparenza, rinviando il tema delle gare. Il Consiglio di Stato, con la sentenza del 9 novembre, ha però subito riaperto la partita delle gare prorogando le concessioni balneari solo fino al 31 dicembre 2023. Il Consiglio ha sottolineato come “le norme legislative nazionali che hanno disposto (e che in futuro dovessero ancora disporre) la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative […] sono in contrasto con il diritto eurounitario […]; tali norme, pertanto, non devono essere applicate né dai giudici né dalla pubblica amministrazione”. Dunque “le concessioni demaniali per finalità turistico-ricreative già in essere continuano a essere efficaci sino al 31 dicembre 2023, fermo restando che, oltre tale data, anche in assenza di una disciplina legislativa, esse cesseranno di produrre effetti, nonostante qualsiasi eventuale ulteriore proroga legislativa che dovesse nel frattempo intervenire, la quale andrebbe considerata senza effetto”. Più chiaro di così! Ora il governo dovrebbe varare una riforma organica, magari intervenendo con un emendamento alla legge di bilancio per il 2022.

Per i tassisti la proposta di legge prevede, con l’articolo 7, un’apposita delega che prospetta tra l’altro “l’adeguamento dell’offerta di servizi alle nuove forme di mobilità che si svolgono mediante applicazione web che utilizzano piattaforme tecnologiche per l’interconnessione dei passeggeri e dei conducenti”; in altri termini, via libera a Uber, e a seguire all’allentamento dei vincoli territoriali e al conferimento di un numero maggiore di licenze. Di che fare saltare i nervi anche al più tranquillo dei tassisti. I conduttori di taxi garantiscono un servizio pubblico che comprende alcune incombenze come la garanzia della presenza nei turni anche di notte, tariffe concordate, l’obbligatorietà del servizio, anche quando non particolarmente remunerativo, l’obbligo di prendere a bordo persone con handicap. Aggiungiamo che escono da un periodo, quello delle restrizioni dovute alla pandemia, che ha loro sottratto turisti e clienti. L’accanimento contro le auto pubbliche è tanto più irritante in quanto esse erano escluse dall’applicazione della Bolkestein. Perciò la categoria ha reagito compatta (le ventitré sigle sindacali unite) nel proclamare uno sciopero nazionale delle 40mila auto bianche, probabilmente per mercoledì 24 novembre, con una grande manifestazione a Roma.

 

 

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