Con Mozart sono andato a «Nozze»

Musicisti & interpreti.
Riccardo Muti racconta la sua vita con il compositoretra maestri e storiche esecuzioni, dai dettagli di Richter alle luci di Strehler

Riccardo Muti

Il mio primo Mozart è stato quello dello studente che cerca di arrampicarsi sulle note: avevo sul pianoforte le Sonate ed ero soprattutto intento a raggiungere la tecnica necessaria per tradurre la pulizia estrema della sua scrittura. Non ero preso ancora dalla grandezza. Tuttavia lo potevo toccare. E fu fondamentale questo contatto iniziale, fisico. In breve arrivai sul podio, era il 1962. Col diploma di pianoforte, alla mitica scuola di Vitale al Conservatorio di Napoli, ero passato a Milano, per studiare direzione con Votto (insieme a composizione con Bettinelli). Ricordo la prima lezione, a novembre. Il Maestro, burbero, di cuore dolcissimo, lui l’assistente storico di Toscanini, mi consegnò una piccola partitura: «Leggiti questa, tra una settimana ritorni e mi mostri cosa sai fare». Era l’Ouverture del Don Giovanni.

Tornai. Ebbi qualche problema nel passaggio dall’Introduzione all’Allegro, che Votto mi risolse rapidamente. Ma a folgorarmi rimase quel re minore: tonalità che accompagna Mozart nelle composizioni più straordinarie, dal Kyrie K341 al Requiem ultimo. Don Giovanni, l’opera che può sembrare giocosa, e che conteneva invece l’idea di morte, di tragedia, di fine. Avevo 21 anni. Rimasi disorientato, anche perché nel mio immaginario l’idea di dongiovanni aveva tutto un altro carattere. Non certo quello che affiorava da un Allegro che fugge, in un rincorrersi di tonalità, come una farfalla senza posa, inquieta, incerta sul se e quando posarsi.

Incontrai così per la prima volta la leggerezza di Mozart, sempre profondissima. Come nelle tre opere scritte con Da Ponte, dove anche gli elementi di occasione offrono al compositore di innalzarsi verso vette altissime. Soave sia il vento, ad esempio: sulla carta è un gioco, un finto addio per una finta partenza. Ma dietro alla burla di due sorelle che si scambiano i fidanzati, Mozart intuisce qualcosa di misterioso. E proprio lì, quando siamo pronti all’inizio dell’avventura maliziosa e erotica, la musica ci porta uno dei momenti più assorti, di indicibile malinconia. E le parole corrispondono alle note, perfette.

Novembre 1962-novembre 1967: diplomato in composizione, diplomato in direzione, vinco il Cantelli, e tra i concerti legati al Premio ce n’era uno con l’orchestra del Maggio Musicale Fiorentino. A quei tempi, nella concezione generale, era dato per scontato che un direttore stesse anche al pianoforte, inimmaginabile il contrario. Nel programma figurava il K595, in sibemolle maggiore. Solista Richter. Partii da Milano in un pomeriggio piovoso, il grande pianista mi aspettava a Siena. Era lì per un periodo di studio, come faceva spesso, lui che adorava l’Italia (diceva sempre: «Ogni cittadino del mondo ha due patrie, una è l’Italia») e ci incontrammo all’Accademia Chigiana. In uno dei grandi saloni c’erano due pianoforti. «Prenda quello di destra», disse Richter. La traduttrice tradusse. «Inizi pure».

Ero un buon pianista, ma non mi aspettavo di dover suonare davanti a lui tutta l’introduzione orchestrale. Tra l’altro particolarmente ampia, in questo Concerto. Richter girava intorno, mi studiava. Leggemmo primo, secondo e terzo movimento, sempre senza dire una parola che non fosse la musica. Solo alla fine arrivò il commento: «Se dirige come suona, è un buon musicista». Quello fu il mio primo grande incontro con la musica di Mozart. Scevro dalle difficoltà tecniche da studente alla tastiera, lontano dalle difficoltà emotive della prima volta, con l’Ouverture del Don Giovanni. Quel gigante di Richter me ne illuminò il vero ingresso: ogni dettaglio veniva talmente approfondito da diventare naturale come un tema; tutto si trasformava in gioia, semplicissima, eppure frutto di un lavoro di scavo verso l’essenziale. Assai diverso da Zino Francescatti, con cui nel 1973 incisi due Concerti di Mozart, a Londra: ormai settantenne mi diede una lezione indimenticabile di stile, di signorilità. Là dove la semplicità diventa complessità (o viceversa).

Non pensavo più al mondo mozartiano: ero direttore principale a Firenze, mi occupavo di Verdi, Bellini, Rossini, ero immerso nel mondo del melodramma, con sconfinamenti nella African di Meyerbeer con Jessye Norman e nella Agnes di Spontini con la Caballé. Era il 1975. Siciliani – il più grande direttore artistico del mondo dell’opera, allora alla guida della Sinfonica Rai di Roma, un delitto eliminarle, lei e le sorelle – un giorno mi apostrofò: «Muti, dovrebbe incominciare a pensare a Mozart». Così. Lapidario. Mozart era allora dominio degli austriaci, sarebbe stato un affronto che vi entrasse un italiano. Proprio io, poi, che mi ero costruito la fama di direttore verdiano. C’era stato Cantelli, sì, col suo Così fan tutte, ma era considerato un unicum. Anzi: un pericolo, da dimenticare.

A Firenze furono Nozze di Figaro straordinarie, con la direzione artistica di Alberti, la regia memorabile di Vitez, un grande cast che andava da Morris, Allen a Marshall (allieva della Schwarzkopf, che aveva cantato Fiordiligi con Cantelli). Tante prove, tanto lavoro di cesello, con l’orchestra che aveva ancora gli archi di Gui, dal colore di seta, e la spalla di Antonio Abussi, mitico; napoletano, naturalmente. Fu un tale successo di pubblico, che spiazzò gli scettici. Siciliani non mollò l’osso. E tornò alla carica, dalla Scala: voleva portare le Nozze con la regia di Strehler. Nel consiglio del teatro si mise ai voti la mia direzione: ci fu solo un voto contrario. Ma nel frattempo, avevo diretto Mozart al Festival di Salisburgo, invitato da Karajan: ricordo la telefonata, al mattino presto, nel 1979, mentre ero in tournée negli Stati Uniti con la Philharmonia di Londra. «Karajan»,uscì dalla cornetta. Una voce grave. E io di rimando: «Qui c’è un cretino che disturba». E lui: «Sono Karajan». Io: «Maestro, come ha fatto a trovarmi?» (ero in un hotel a Raleigh, nel Nord Carolina) Lui: «Se uno vuol trovare qualcuno lo trova». Parlava benissimo in italiano. Aggiunse che aveva pensato a me per la prossima edizione del Così fan tutte. Forse Paumgartner, che viveva a Firenze, gli aveva parlato del successo delle Nozze di Figaro. Replicai che non lo avevo mai diretto. Che a Salisburgo c’era la fama di Böhm. Che per un italiano avrebbe potuto essere un suicidio. «Muti: sì o no». Fu sì. Come scrisse un critico tedesco, si era passati dal «Cosi» di Böhm, al «Così» di Muti.

Il Mozart con Strehler, nel 1981, fu poi una delle esperienze scaligere più intense: un mese di prove al pianoforte, col regista sempre presente. Instancabile in scena, dove voleva da subito tutti in costume, parrucche comprese, «perché bisogna vestire l’anima». C’è una foto bellissima di Silvia Lelli, dove stiamo seduti vicini, su due seggiole. Ma quelle due seggiole avevano percorso un tragitto: partiti distanti, ai due estremi del palcoscenico, man mano ci eravamo avvicinati, in un’atmosfera incredibile di reciproca costruzione. Nel 1987 si arrivò al Don Giovanni, 7 dicembre. Ricordo una sera tardi, la Scala vuota, Strehler solo in scena col suo team: provava le luci della Serenata. Mi sedetti commosso. Blu scuro, mai avevo visto a teatro una notte tanto toccante. Perfetta. E invece Strehler andò avanti a lavorarci ancora per due ore. Rifinendo, ritoccando. Finché il bellissimo non diventò sublime. Con lo stesso scavo con cui il Là ci darem la mano di Don Giovanni e Zerlina diventa un gesto che non si raggiunge. Il “casinetto” un miraggio. Il tempo una danza, quasi spirituale. E loro lì, sospesi nell’aria.

La relazione assoluta, verticale, tra parola e musica, è il cuore della scrittura di Mozart. Dove il suono si inebria, a volte persino di una sola sillaba. «Fa di me quel che ti par», nel Così fan tutte: frase linda, che la musica svela. Oppure: «Folle è quel cervello che sulla frasca ancor vende l’uccello»: gioco libero, di un erotismo mai triviale. Come nella litania religiosa che accompagna «Il mio fallo tardi vedo», gioco impudico di doppi sensi. O ancora nella frase della Contessa, «Dove sono i bei momenti», che è un interrogativo (e non un’affermazione) sensuale, carnale. Di rimpianto fisico, con una donna che dice e canta la nostalgia di dolcezza e piacere. Metafisica e insieme estremamente concreta, come solo sapeva Mozart.

 

Con il Mozart di Riccardo Muti inizia una serie di ritratti di grandi compositori affidati a grandi

interpreti, in un gioco di specchi

e di ricordi

Illustrazione di Guido scarabottolo