In quel 1981 – anno in cui Ciro Cirillo, morto ieri a Torre del Greco, viene rapito – era già iniziata la parabola finale delle Br: ma non appariva ancora evidente. I brigatisti «non sono samurai invincibili» aveva scritto Walter Tobagi l’anno precedente, poco prima di essere ucciso: aveva ragione, ma non era facile capirlo. Non era facile in quel 1980, davanti alla bara di Guido Galli, ucciso all’Università di Milano con in mano il libro per la lezione, o di Vittorio Bachelet assassinato all’Università di Roma, o del generale Enrico Galvaligi, che era stato partigiano ed era allora responsabile dei carceri di massima sicurezza. Forse lo si poteva intuire dal crescere di una ferocia anche interna alle Br, che le portava a sequestrare e poi ad assassinare nell’agosto del 1981 Roberto Peci, il fratello del “traditore Patrizio” (e il suo corpo crivellato da colpi di pistola veniva lasciato «a ridosso di un muro scalcinato della periferia romana, tra montagnole di rifiuti e fiori di cicoria», come scriveva questo giornale).
Si ricordi anche la vicenda del giudice Giovanni D’Urso, rapito il 12 dicembre 1980, perché è abissale la distanza da quel che avverrà nel rapimento Cirillo.
D’Urso è condannato a morte dal “tribunale proletario” ma le Br offrono la sua vita in cambio della chiusura del carcere speciale dell’Asinara, che avviene, e della pubblicazione sui quotidiani dei documenti delle rivolte delle carceri di Trani e di Palmi: e i radicali offrono il loro spazio televisivo alla figlia del giudice, costretta a leggere un testo in cui il padre è definito «boia». È durissimo, in quei giorni e in quelle ore, il ricatto subito dai giornali e dai giornalisti, e sono durissime le scelte che devono affrontare. Durissime, in ogni caso. È impossibile comprendere quel clima se non si ricorda che meno di due anni prima, nei 55 giorni del rapimento Moro, la discussione sul trattare o meno con le Br aveva assunto toni drammatici e diviso in profondità il Paese, non solo le forze politiche.
Soprattutto, è impossibile capire cosa abbia significato la vicenda iniziata nell’aprile del 1981 con il rapimento di un assessore regionale della Campania pur potente come Cirillo (avvenuto – come nel caso Moro – con l’uccisione degli uomini della scorta). Si può solo pallidamente intuire oggi cosa abbia significato scoprire progressivamente che in quella vicenda una cosa sola era certa: l’altissimo riscatto pagato da esponenti della Dc e da imprenditori, in una rete oscura di rapporti in cui comparivano anche servizi segreti e “nuova camorra organizzata”; e che aveva come “nido del ragno” il carcere di Ascoli in cui era rinchiuso, e molto visitato, il boss Raffaele Cutolo. E se l’esito del rapimento Cirillo appare incomprensibile – per dir così – rispetto al prima, lo è anche rispetto al dopo. Fra la fine del 1981 e l’inizio del 1982 vi è infatti la vicenda che segna forse lo spartiacque definitivo, il rapimento del generale americano James Lee Dozier. È liberato il 28 gennaio da un commando dei Nocs (Nuclei operativi centrali di sicurezza): uno dei sequestratori, probabilmente sottoposto a tortura, aveva dato le indicazioni che permettono l’arresto dell’intera “colonna veneta” delle Br. È di fatto la fine di una storia, anche se negli anni Ottanta non mancheranno altre ferocie e altri assassini.
Si ricordi anche la vicenda del giudice Giovanni D’Urso, rapito il 12 dicembre 1980, perché è abissale la distanza da quel che avverrà nel rapimento Cirillo.
D’Urso è condannato a morte dal “tribunale proletario” ma le Br offrono la sua vita in cambio della chiusura del carcere speciale dell’Asinara, che avviene, e della pubblicazione sui quotidiani dei documenti delle rivolte delle carceri di Trani e di Palmi: e i radicali offrono il loro spazio televisivo alla figlia del giudice, costretta a leggere un testo in cui il padre è definito «boia». È durissimo, in quei giorni e in quelle ore, il ricatto subito dai giornali e dai giornalisti, e sono durissime le scelte che devono affrontare. Durissime, in ogni caso. È impossibile comprendere quel clima se non si ricorda che meno di due anni prima, nei 55 giorni del rapimento Moro, la discussione sul trattare o meno con le Br aveva assunto toni drammatici e diviso in profondità il Paese, non solo le forze politiche.
Soprattutto, è impossibile capire cosa abbia significato la vicenda iniziata nell’aprile del 1981 con il rapimento di un assessore regionale della Campania pur potente come Cirillo (avvenuto – come nel caso Moro – con l’uccisione degli uomini della scorta). Si può solo pallidamente intuire oggi cosa abbia significato scoprire progressivamente che in quella vicenda una cosa sola era certa: l’altissimo riscatto pagato da esponenti della Dc e da imprenditori, in una rete oscura di rapporti in cui comparivano anche servizi segreti e “nuova camorra organizzata”; e che aveva come “nido del ragno” il carcere di Ascoli in cui era rinchiuso, e molto visitato, il boss Raffaele Cutolo. E se l’esito del rapimento Cirillo appare incomprensibile – per dir così – rispetto al prima, lo è anche rispetto al dopo. Fra la fine del 1981 e l’inizio del 1982 vi è infatti la vicenda che segna forse lo spartiacque definitivo, il rapimento del generale americano James Lee Dozier. È liberato il 28 gennaio da un commando dei Nocs (Nuclei operativi centrali di sicurezza): uno dei sequestratori, probabilmente sottoposto a tortura, aveva dato le indicazioni che permettono l’arresto dell’intera “colonna veneta” delle Br. È di fatto la fine di una storia, anche se negli anni Ottanta non mancheranno altre ferocie e altri assassini.
La Repubblica – GUIDO CRAINZ – 31/07/2017 pg. 26 ed. Nazionale.